(pubblicato su SCI n. 326 – primavera 2016 – pagg. 14-23)
Puntiamo i riflettori su due importanti volti italiani del freeride per capire come nasce questa passione.
Giulia Monego è una freeskier professionista che oggi alterna esplorazioni del ripido, prime discese e avventure intorno al globo sciando e realizzando foto e filmati mozzafiato. Tra le sue tante conquiste, ricorre quest’anno il decennale dalla sua vittoria, giovanissima, dell’X-treme di Verbier, la più importante e storica competizione di freeride big-mountain del mondo.
Giuliano Bordoni è una guida alpina, sempre con il sorriso, l’attenzione e la parola giusta per chi impara, oltre a essere un freerider d’eccezione autore di prime discese su ripido e testimonial per Norrøna e gli sci Black Crows del mitico Bruno Compagnet.
Lasciamoci ispirare dal fascino e dalla determinazione di Giulia da un lato, e dalla simpatia e leggerezza di Giuliano dall’altro, andando a scoprire un po’ la loro vita dietro le quinte… le loro storie, i loro spot preferiti, il loro modo di leggere un pendio… senza dimenticare qualche suggerimento per sciare meglio… persino da maggio a ottobre 🙂
Anche se da buoni freerider – come facciamo anche noi nel nostro piccolo – in questa intervista parallela hanno scelto e seguito linee diverse, ognuno secondo la sua indole e la sua storia, è bello constatare una loro forte convergenza.
Alla fine della chiacchierata, come fosse alla fine di una discesa, Giulia e Giuliano si sono ritrovati – e noi con loro – con quel sorriso stampato sul volto di chi si sa esprimere la propria personalità con gioia e in libertà sulla neve, ma anche nelle parole.
Per me l’energia e l’anima più pura del freeride sono in quel sorriso che ci unisce, tutti noi amanti del bianco. E a me non sembra affatto poco.
Partiamo con qualche battuta per dire chi siete…
G.M.: Sono una sciatrice con una grande passione e altrettanta voglia di esplorare… e mi piace il fuoripista. Il mio stile di sci rimane freeride, anche se ultimamente ho adattato la tecnica per fare alta montagna e discese più impegnative. Provo ad attingere da tutte le mie esperienze per trasferirle nella pratica sul ripido e su linee alpinistiche. Cerco comunque di essere una sciatrice a tutto campo.
G.B.: “Un idiota” 🙂 guida alpina, freerider, romantico e sognatore. Vado in montagna per trovare un luogo dove fuggire dalla quotidianità. Cerco buone scuse per stare all’aria aperta e le chiamo lavoro.
Com’è nato l’amore per il freeride?
G.M.: Nella stagione 2003-2004 mi sono spostata dalle Dolomiti, dove ho sempre vissuto e sciato, a Verbier per fare una stagione come maestra di sci e lì è scattata la scintilla. Si è aperto davanti ai miei occhi un nuovo mondo che in Italia era ancora praticamente sconosciuto, quello dello snowboard professionistico e delle competizioni di freeride, l’X-treme e il Freeride World Tour. È stato grazie a Verbier che ho scoperto come sciare con un atteggiamento e uno stile diversi, studiando le linee, i salti, ecc…
G.B.: Ciò che mi ha spinto verso il freeride è stata la bella sensazione di tornare bambino. Quando sei bambino tutto ciò che ti fa scivolare ti piace. Io per esempio prendevo la slitta per giocare nella neve con il mio amico del cuore Marco. Questa naturale spensieratezza l’ho ritrovata quando ho scoperto gli sci larghi, ed è stato amore a prima vista. I primi li ho avuti nel 2005 dalla K2 grazie a Celso Sport, un negozio con cui ho sempre collaborato. Erano davvero gli inizi, andavamo in giro per Bormio a fare “freeride” con Lorenzo Munari, che era un solitario perché allora più nessuno faceva fuori pista, era l’epoca dei divieti… e ci consideravano “gli sciagurati di Bormio”.
Qual è stato il tuo esodio sugli sci? Hai mai fatto gare tra i pali?
G.M.: I primi sci li ho messi a tre anni con i miei genitori a Cortina, ed è stata subito grande passione. Poi sempre a Cortina ho fatto il percorso classico sci club e agonismo. Gare tra i pali ne ho fatte molte, cinque anni nei circuiti F.I.S., qualche gara di Coppa Europa e belle soddisfazioni nei Campionati Italiani (vice-campionessa in gigante nel ‘95 e nel ‘96, NdR). Tuttavia non ero molto costante nei risultati per cui non sono mai entrata in squadra nazionale. Da un lato è stato un bene…. da lì è partito lo stimolo che mi ha spronato a fare qualcos’altro e a trovare la mia strada.
G.B.: Ho iniziato a sciare che avevo 4 o 5 anni e continuato fino a 13. Poi ho messo da parte gli sci perché non mi divertivo a fare pista. Quindi sono passato allo snowboard per i dieci anni successivi ed ho iniziato ad andare fuoripista… purtroppo senza nessuna cognizione di causa, perché non c’era nessuno a insegnare come e cosa fare. Per dire, a quei tempi erano pochissimi ad avere l’artva, praticamente solo gli operatori del soccorso alpino.
Gli sci li ho poi ripresi in mano quando ho deciso di diventare guida alpina, perché le selezioni prevedevano anche la prova di sci. Ed era cambiato tutto, erano arrivati “i carve” e stavano arrivando “i larghi”. Insomma c’era da divertirsi. Ricordo i cazziatoni del maestro “Tommaso Tomasetti spigoli perfetti” perché già allora andavo in switch… In quel periodo mi sono anche avvicinato allo scialpinismo con Adriano Greco e Luca Salini e ho fatto qualche gara. Invece non ho mai fatto né pali, né gare di discesa, salvo da bambino quelle di fine corso.
Da freerider cosa ti porti dietro dell’esperienza in pista o del tuo “prima”?
G.M.: Sicuramente a livello tecnico fare pista e tanti pali aiuta molto. Anche se poi passando fuoripista la tecnica va rivista e adattata. Aver fatto tanti anni di gare e lavorato con allenatori e preparatori atletici professionisti mi ha insegnato soprattutto la disciplina che sta dietro ad un buon allenamento. Anche il freeride richiede un duro lavoro fisico se vuoi arrivare sulla neve con la giusta condizione. E comunque tutta l’esperienza che fai in montagna te la porti dietro, da “piccozza e ramponi” a “corde e scarpette”, specialmente quando sei su un terreno selvaggio o esposto.
G.B.: Della pista zero 🙂 ho solo vaghi ricordi di quello che facevo da piccolo. Quello che mi porto dietro invece è la leggerezza della tavola da snowboard: fuori pista la morbidezza è tutto. E poi l’indipendenza di gambe che viene dalle discese con gli sci da scialpinismo.
Il mio primo approccio con la montagna, quella vera, è stato con le cascate di ghiaccio, insieme a Mario Sertori. È dal tempo passato insieme in tante avventure e vie nuove in giro per il mondo che è nata l’idea di diventare guida, che poi mi ha riportato a sciare. È come dice Giulia, una sorta di cerchio che si chiude: tutte le esperienze pregresse fanno parte del tuo bagaglio quando sei fuori dal battuto.
Quali sono i tuoi consigli per chi inizia, o per chi passa dalla pista al freeride?
G.M.: Basi della sicurezza prima di tutto. Dal sapere come si affronta un pendio e come si effettua un autosoccorso in valanga, all’utilizzo efficace di artva, sonda e pala. Sciare con amici ben preparati e formare un bel gruppo stimolante. Cercate località dove ci sia una bella comunità di freerider che vi possa sostenere e ispirare. Ma ricordate anche, per le uscite, di formare gruppetti non troppo numerosi.
Inoltre può essere di grande aiuto un’attrezzatura dedicata, a partire da sci larghi che garantiscano un buon galleggiamento. E soprattutto non bruciate le tappe andando ad affrontare pendii o situazioni per cui non siete preparati. Procedete per gradi perché la vostra esperienza personale non può regalarvela nessuno. Ma avventuratevi e andate un po’ in tutte le nevi: si impara anche e soprattutto dove la neve è brutta o dove è già sciata. È in queste condizioni meno agevoli che si fa esperienza, anche sotto l’aspetto motorio, e si sale di livello.
G.B.: Il freeride è un mondo che funziona se c’è neve… e se c’è neve immancabilmente possono staccarsi le valanghe, per cui la prima cosa è saperle prevenire. Ben prima di arrivare all’utilizzo di artva, sonda e pala… perché se arrivi ad averne bisogno significa che non hai fatto la scelta migliore. È fondamentale quindi avere con sé l’attrezzatura da autosoccorso in valanga e saperla utilizzare correttamente, perché in caso di incidente sei tu che puoi salvare la vita al tuo compagno ed è lui che può salvare la tua. È una questione di tempistiche (la probabilità di sopravvivenza cala significativamente dopo i primi 15 minuti, NdR), il soccorso alpino arriva quasi sempre e inevitabilmente tardi. Queste sono le prime regole da sapere fuori dal battuto.
Secondo consiglio per chi inizia è scegliere sci “facili”, intendo “sbananati” (con rocker pronunciato, NdR) e veramente larghi sotto il piede.
Terzo, importantissimo, non pensare a nulla se non a divertirsi. Quando affronti le prime discese in neve fresca, se pensi solo a divertirti e non alla tecnica, tutto viene molto più facile, naturale… e ti ritrovi nella condizione ideale per imparare. Se invece sei teso, allora le gambe si induriscono e stai arretrato, e come conseguenza non riesci a stare a galla… in pratica fai una fatica boia e non ti diverti per nulla, che è demotivante. Devi dimenticare per un attimo tutto quello che ti dicono, “il giusto” e “lo sbagliato”, e trovare un approccio spensierato, giocando come quando eri bambino con questi nuovi attrezzi. Sciare rilassato. Iniziare con discese dolci, che non creino stress per la pendenza e per la gestione della velocità. E poi “step by step”, la tecnica viene fuori. Ma se non parti da quella condizione di tranquillità e fluidità che ti permette di divertirti e di “volare”… non puoi sci-volare 😉 in fresca come si deve.
Come vedi la competizione in rapporto al freeride?
G.M.: È un po’ un dilemma. È vero che non si addice troppo al freeride… oggi si è però arrivati con il Freeride World Tour a un formato non male che è molto spettacolare e in cui la competizione conserva un bello spirito. Ogni atleta cerca di fare la linea che gli piace di più… non cerca solo di battere l’avversario di pochi decimi di secondo. Le discese sono un’interpretazione personale della parete scelta per la gara e spesso capita di avere belle sorprese e veder nascere nuove linee fantasiose.
È anche vero però che quasi tutti quelli che fanno competizioni, così come i freerider al top, si esprimono al meglio quando sono a sciare per conto proprio, o con gli amici, o filmando.
G.B.: Non mi piacciono molto le gare. Nel Freeride World Qualifier c’è una competizione non equilibrata. Molti giovani vogliono per forza sfondare, essere sponsorizzati, perché cercano giustamente una strada per vivere dello sport che amano. Ma in molti casi non si rendono conto di quale sia il loro limite: se il loro limite è 100 vanno a 150 o più.
Mi viene in mente Bruno Compagnet che è una leggenda del freeride e, prossimo ai 50 anni, è ancora lì a esprimere tutto il suo potenziale… quando salta lo fa perché è sicuro di chiudere il salto che sta affrontando, non si butta mai a caso. Questa consapevolezza manca alla maggiorparte dei ragazzi nei Qualifier.
Invece al Freeride World Tour le linee sono meno fluide e pulite di un tempo. Siamo lontani per esempio dalla linea che fece Candide Thovex quando fu invitato a Chamonix: ovvia, pulita, fluida, logica ed eseguita con una naturalezza straordinaria.
Poi c’è qualche atleta veramente forte che porta il freestyle sulle grandi pareti, uno slancio di ricerca lodevole ma che richiede grande tecnica e grandi capacità ed è quindi riservato a una minoranza.
Quali sono gli elementi che valuti quando osservi un pendio?
G.M.: Personalmente un pendio mi deve ispirare dal lato estetico prima di tutto. Devo individuare una linea logica, bella, che possa seguire e incidere con i miei sci. Poi valuto la qualità della neve e gli eventuali rischi: cliff, rocce nascoste, esposizione, pericolo di slavina o slough (colata di neve superficiale).
G.B.: Nel valutare le condizioni, sono molti gli elementi che guardo. A partire da cornici, creste e dorsali per capire se ha soffiato vento o meno. Ma anche la neve sugli alberi è un buon indicatore.
Osservo il colore e la superficie del manto, se e quanto è liscia, increspata, ondulata… per capire se troverò polvere, crosta, neve bagnata, ecc… Per esempio se la superficie è molto luccicante significa che si è formata della “brina di superficie”. È un’informazione importante da memorizzare, perché, se nei giorni seguenti ci sarà una forte nevicata, saprò che i cristalli a calice della brina – che si comportano come palline di polistirolo – costituiscono un piano di slittamento che può favorire il distacco.
Poi valuto le tracce, se ci sono, perché aiutano anch’esse a capire la qualità e la tipologia di neve. Sia chiaro invece, che la presenza di tracce di altri non dà certezze in merito alla sicurezza di un pendio.
La tua sciata ideale in pochi aggettivi?
G.M.: “Ingaggiosa”, ripida, fresca come la neve migliore.
G.B.: Leggera, veloce, profonda.
Il tuo spot invernale preferito?
G.M.: È una dura lotta tra Verbier e Chamonix. Ma forse sono pronta per rispondere Chamonix, dove adesso ho scelto di abitare.
G.B.: Non posso dirtelo ;)… a parte gli scherzi è Livigno… e poi Santa (Santa Caterina, NdR) perché è dove ho passato la mia infanzia, dove ho mosso i primi passi con lo snowboard. È stato ed è il mio paradiso.
La tua linea regina, quella che non puoi fare a meno di raccontare?
G.M.: La parete Ovest del Monte Bianco. Era il 2009 ed ero con due carissimi amici che purtroppo sono scomparsi (David Rosenbarger e Arne Backstrom, NdR). Non è stata la mia discesa più ripida, né la più difficile o impegnativa, ma l’ambiente fantastico del Bianco, la compagnia e la parete immensa hanno reso quella discesa unica e indimenticabile.
G.B.: Una sola mi viene difficile. Ne ho due o tre in mente.
Una delle prime volte che ho sciato con Bruno Mottini eravamo a Livigno ed era al tramonto, abbiamo preso l’ultima seggiovia e mi ricordo una luce rossissima e questa discesa con i rumori della neve e del vento. Soltanto io e lui, senza dire una parola, dalla cima del Carosello fino giù in fondo a Livigno. Wow! Bruno allora era già “personaggio”… diceva una parola a settimana 😉 ed era un’atleta fortissimo in tutto, scialpinismo, bici, fondo, discesa. Per me davvero un mito.
Poi mi piace ricordare la “prima volta” con un altro Bruno mio idolo, Compagnet, quando al Tonale, abbiamo realizzato la prima discesa del Canale Res-Max. Sciare con lui un ripido con punte di 55° che era lì sotto la vista di tutti e che non aveva mai sciato nessuno: un’emozione fortissima.
E la terza è la discesa della parete Sud del Gran Zebru lungo una linea che chiamammo Fucking the ghost: l’inizio del mio rapporto sciistico con Paolo Marazzi nel 2010.
Arriviamo insieme al rifugio con i pantaloni larghi e i nostri palettoni che allora nessuno aveva mai visto. C’era il raduno dei giovani dello scialpinismo e un corso del CAI. Puoi immaginare come ci guardavano male? Partiamo al mattino prima di tutti, con gli sciettoni pesanti. Dopo un paio d’ore ci passano i ragazzini dello scialpinismo a velocità doppia. In salita vedo Paolino preoccupato. Mi chiede di mettere i ramponi, poi di usare la piccozza, poi una seconda piccozza – la mia – poi di legarsi… insomma penso che non sia proprio il caso di affrontare quella discesa sull’altro versante, molto più ripido di quello che stiamo salendo. Quando siamo in cima, tranquillamente, gli propongo di scendere lungo la normale. Paolo mi guarda e mi chiede con naturalezza, «ma qual è la via che volevi fare? Per me non c’è nessun problema, quando ho gli sci ai piedi sono tranquillissimo». «Ma sei serio?» «Sì, sì.» Così attacchiamo… e vedo che fa la prima curva sul ripidone in telemark pulito… neanche un pelo di derapata…. e lì ho capito che la discesa sarebbe stata grande. Fantastica.
Sciare 12 mesi l’anno si può?
G.M.: Dodici mesi l’anno è dura. Perché andando nell’emisfero sud, le stagioni non sono così estese come nel nostro. Facendo un po’ di alpinismo la stagione nelle nostre Alpi si può allungare di parecchio, anche fino a maggio e giugno.
Il problema sono gli sbalzi termici. Sembra una banalità ma l’unica sicurezza è che non abbiamo più le certezze delle stagioni. È uno sport, il freeride, in cui bisogna adattarsi molto. Non si può più dire con certezza che un pendio in una stagione sia sempre sciabile. Saper considerare le condizioni del momento è diventato davvero fondamentale. Bisogna saper guardare e valutare.
G.B.: Sì credo si possa sciare 12 mesi, ma a me non piace. Come dice il mio socio Bruno: “se scii tutto l’anno… che palle, arriva l’inverno e hai già perso la motivazione”. Invece è bello sciare d’inverno, fare ripido e scialpinismo in primavera, poi d’estate vorresti scalare ma magari non puoi perché lavori, allora aspetti settembre-ottobre e ti scateni sul verticale. Così arrivi a dicembre che hai una voglia matta di sciare. Il top! Dovessi sciare 12 mesi l’anno ho l’impressione che il tutto perderebbe qualcosa.
Un consiglio non estremo per la primavera e l’estate, dove fare freeride?
G.M.: Monte Rosa e Monte Bianco. Gressoney e Alagna da un lato, e Courmayeur e Chamonix dall’altro, in primavera offrono ottime occasioni grazie agli impianti che ti portano in alta quota: ti regalano ancora grandi giornate di polvere e belle linee quando magari in valle ci sono già le primule. In alternativa mi viene in mente anche Tignes.
Sono da mettere in conto in questa stagione gli spostamenti con le pelli o a piedi per guadagnare l’uscita giusta o la linea migliore.
Se fate sci alpinismo vi consiglio per esempio la Val Formazza nella zona del Sempione, oppure il cuneese, dove se non fa troppo caldo si possono trovare davvero bei pendii.
Per l’estate direi l’Argentina e il Cile. Sulla linea delle Ande si sono alcune stazioni sciistiche fantastiche, con terreni interessanti e bei pendii facili da accedere. Se avete fortuna potete anche imbattervi in grandi nevicate con neve leggera, polverosa e abbondante. San Carlos de Bariloche e San Martin del los Andes in Argentina, e Portillo in Cile, sono luoghi in cui ti puoi proprio togliere la voglia dello sci e del fuoripista in estate.
Un altro posto che ogni freerider una volta nella vita dovrebbe visitare è la Nuova Zelanda.
Penso in particolare ai “Club Field” piccoli resort privati e un po’ spartani davvero fantastici per fare freeride: pochissima gente e solo fuoripista! Se ne trovano alcuni lungo la strada nazionale 73 che parte da Christchurch e, passando per l’Arthur Pass, taglia da est a ovest l’Isola sud della Nuova Zelanda. Per esempio Temple Basin che viene chiamata la piccola Chamonix. Sono posti unici che si raggiungono con un po’ di avventura, districandosi tra strade sterrate, teleferiche e tratti a piedi o con le pelli. Una loro caratteristica sono i “nut crucker”, efficaci e rudimentali skilift costituiti da una corda tesa tra carrucole che gira veloce. Funzionano così… ti viene fornita una cintura un po’ imbottita che va legata in vita da cui parte una cordicella cui è attaccato lo “schiaccianoci” di metallo… tu pinzi lo schiaccianoci sulla corda rotante e ti fai tirare su… e vai “a manetta” anche su pendii ripidissimi passando vicinissimo alle rotelle passacavo. Da morire dal ridere. Un’esperienza unica.
G.B.: Sono d’accordo con Giulia sull’America del Sud. Andrei in Cile che è stupendo, e forse meno battuto dell’Argentina. Oppure in Bolivia.
La spedizione più bella? E un posto dove torneresti?
G.M.: Il Sud America mi piace un sacco. La spedizione in Bolivia nel 2011 è stata un’esperienza fantastica. Con Dave Rosenberger e Christian Pondella siamo riusciti, tra le altre cose, a sciare la ripida parete Sud Est dello Huayna Potosi in condizioni di neve perfette. Abbiamo anche effettuato un soccorso a 6000 metri, esperienza utile ma inaspettata e abbastanza traumatizzante. In Bolivia è stato bellissimo, ma credo di aver sciato le pareti che mi interessavano di più. Un posto dove invece tornerei molto volentieri è il Perù. Ci sono stata qualche anno prima e penso per me ci sia ancora tantissimo da esplorare. È un terreno decisamente “alpinistico” e oggi mi sento più preparata per goderlo appieno.
G.B.: Il viaggio più bello è stato la prima volta che sono andato in Norvegia nelle Alpi di Lyngen. Ero solo ed esclusivamente con gli amici (Lorenzo Munari, Paolino Marazzi, Matteo Boffi e altri) a sciare senza pensieri in uno dei posti più belli del mondo: un parco giochi vastissimo, neve fantastica e ai tuoi piedi il mare… Ho lasciato un pezzo di cuore in Norvegia!
Essere uomo o donna cambia per fare freeride?
G.M.: Le donne freerider sono poche e forse proprio per questo belle “cazzute” 😉 … hanno meno potenza fisica e capacità di tenere certe velocità elevate, ma spesso hanno più fluidità e leggerezza, caratteristiche importanti che in molte situazioni le pone in vantaggio.
Non è facile per una donna farsi strada nel mondo del freeride. Per farti rispettare devi dare qualche gomitata. Quando però ti crei il tuo posto e la tua comunità di amici, vieni molto apprezzata, perché le donne hanno capacità che gli uomini spesso non hanno.
G.B.: C’è tantissima differenza tra uomini e donne. Ci sono veramente poche donne che son brave a sciare fuori pista. E ci sono veramente pochi uomini eleganti come quelle poche donne che lo sanno fare.
Giulia è l’unica donna che io amo davvero vedere sciare e non lo dico perché siamo in parallelo in questa intervista. Lei lo sa. Sono tre gli sciatori che ho conosciuto di persona e che amo guardare. Beh non ho mai visto Candide Thovex che forse batterebbe tutti…
Comunque il primo è Manu Gaidet che ha vinto tre volte il FWT ai tempi. Il secondo è Alex Pittin di Chamonix che è impeccabile sempre… sul ripido, in polvere e in pista. E la terza è la Monego. Giulia è assurda, perfetta, precisa, sembra non faccia mai fatica, pulita, con il busto fermo e le gambe morbide che seguono il terreno. Immaginati una macchina sullo sterrato con la carrozzeria ferma e gli ammortizzatori che attutiscono qualsiasi asperità, ecco lo sciatore che scia bene è così. Giulia è così.
Un tuo messaggio-saluto ai lettori e a chi ama lo SCI in tutte le sue forme?
G.M.: Non perdete le occasioni giuste e non fatevi troppo condizionare dalle tracce o dai posti classici. Non abbiate paura di esprimere voi stessi. Provate cose nuove e mettetevi in gioco in posti meno noti. Uscite un po’ dal branco e fate cose uniche: 5 curve tutte tue danno più soddisfazione di 100 pendii sciati da tutti.
G.B.: Si può sciare vent’anni, trent’anni, e continuare sempre a imparare e migliorare. Siete fortunati, non smettete. Lo sci è uno sport che può non finire mai. Puoi essere sempre alla ricerca di un nuovo equilibrio sul filo della perfezione… hai sempre più di una strada aperta… la neve cambia, l’attrezzatura cambia… e magari in una giornata senti di essere un tutt’uno con la neve e l’ambiente circostante. Una sensazione talmente bella che vale la pena di ricercarla e ritrovarla di nuovo e in modo diverso.
Lo sciatore può essere un po’ come il surfista che cerca l’onda perfetta.
Quindi non smettete mai di cercare e di condividere, lo sci è anche una festa, un rito per celebrare insieme la magica stagione dell’inverno.
Nome: Giulia
Cognome: Monego
Luogo e data di nascita: Venezia, il… ssst non si fanno queste domande alle fanciulle, nemmeno giovanissime 🙂
Luogo di residenza attuale: Chamonix
Professione: freerider, maestra di sci, futura guida alpina…
Stato civile: nubile
Altezza: 163 cm
Peso: ssst… idem come sopra 🙂
Abbigliamento: Black Diamond
Scarponi: Scarpa Freedom RS o F1
Sci: Kastle BMX 105 o TX 97
Attacchi: Plum Guide
Artva, pala, sonda: sempre con me, Pieps
Casco: quasi sempre, Smith (come gli occhiali)
Airbag: a seconda delle uscite, Jetforce
Sito web: www.giuliamonego.com
Nome: Giuliano
Cognome: Bordoni
Luogo e data di nascita: Tirano, 11 ottobre 1981
Luogo di residenza attuale: Grosio
Professione: guida alpina, macellaio e freerider
Stato civile: celibe
Altezza: 180 cm
Peso: 65 kg
Abbigliamento: Norrøna
Scarponi: La Sportiva Sparkle
Sci: Black Crows Corvus Freebird 183
Attacchi: Skitrab TR2
Artva, pala, sonda: sempre con me, Pieps
Casco: quasi sempre, non per fare ripido
Airbag: quasi sempre, ABS
Sito Web: www.whitelineguides.com
Facebook: www.facebook.com/giuliano.bordoni.5
Monego-Bordoni-SCI326 (pdf - 1.6 MiB)