In occasione della partecipazione in questi giorni – 30-31 gennaio 2016 – di Giorgio Griffa (GG) agli Engadin Art Talks, evento curato tra gli altri da Hans Ulrich Obrist (HUO) mi fa piacere pubblicare – con l’autorizzazione di entrambi – l’intervista dialogo, densa di contenuti e spunti, che li ha visti entrambi protagonisti in occasione dei Walkie Talkies @Artissima, il 6 novembre 2014.
A fondo pagina trovate anche il video integrale della chiacchierata, dura circa 50 minuti.
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HUO: Con Giorgio il cui lavoro sta ispirando tramite le sue mostre i giovani artisti non solo d’Italia ma del mondo intero, ci siamo incontrati la prima volta 25 anni fa, nel mio primo viaggio in Italia quando ero ancora uno studente. Poi ci siamo rivisti di recente insieme ad Andrea Bellini per la mia lunga intervista in studio che trovate all’interno del libro catalogo curato da Andrea (ndr. pubblicato da Mousse Publishing).
Quella di oggi è quindi la nostra terza conversazione.
Come diceva Panofski, tanti lavori realizzati molti anni fa possono permetterci di inventare il futuro. Con Giorgio parleremo non solo delle opere del suo passato, ma anche e soprattutto dello straordinario lavoro che continua a fare oggi.
Ma partiamo dall’inizio…
HUO: Come è cominciato tutto? C’è un’epifania che ti ha portato all’arte?
GG: Io continuo a ritenermi un pittore tradizionale, e mi trovo in questi spazi (ndr. Artissima) con il mio lavoro riconosciuto. C’è forse una contraddizione in termini di pura logica deduttiva, ma c’è invece una forte continuità nel lavoro. Ho cominciato a fare il pittore dilettante a 8-10 anni. Sono passato attraverso la pittura tradizionale con maestri classici che avevano paura persino della pittura di Morandi. Poi a un certo punto nel mio percorso qualcosa è cambiato, senza il bisogno di fare una scelta di campo negli anni in cui fioriva la polemica tra figurativo e astratto. Una contrapposizione che a mio parere ha fatto un danno enorme all’arte italiana, bruciando artisti di grande qualità e spostando l’attenzione da ciò che stava accadendo a una disputa ormai fuori tempo massimo.
Io mi sono semplicemente accorto a un certo punto che le immagini si staccavano dalla pittura, che in qualche modo si sovrapponevano ad essa, per cui non mi è restato che abbandonarle e lasciare ai segni il loro linguaggio.
HUO: Qual è il numero 1 nel tuo catalogue raisonné?
GG: Non ho mai pensato a un catalogue raisonné e ho una mente che riesce a contaminare tutti i ricordi, del resto è proprio la contaminazione uno dei meccanismi da cui ha origine la vita. Quindi sono più attento ai percorsi mentali costruttivi e connettivi che a quelli di riepilogo, per cui mi trovo in difficoltà a trovare o designare un numero 1. Sicuramente un punto di riferimento per l’inizio del mio lavoro è una grande tela del 1968 che è esposta al Museo del Novecento di Milano fatta di segni di pennello di colori diversi che salgono dal basso verso l’alto (ndr. Policromo verticale, 1968, olio su tela).
HUO: Possiamo parlare della tua mostra del 1968, l’anno in cui sono nato.
GG: Quell’anno lì tu sei nato come uomo e io come pittore. Non è stato nel mio caso un parto faticoso. Avevo capito che dovevo spogliare la pittura delle mie sigle personali.
Adesso, parlando con la saggezza del dopo, mi rendo conto che era l’esigenza di staccarmi dalla figura dell’artista dominatore, di scoprire che la materia bruta non esiste, che la materia è intelligente, fin giù al bosone di Higgs. A fine anni ‘60 tutto questo non lo sapevo, ma sentivo la necessità di passare da una fase di dominio in cui l’uomo pone una sua sigla sulla materia, a una fase in cui invece fosse la materia stessa a parlare.
In questa prima mostra del 1968 erano esposte alcune grandi tele intitolate Quasi dipinto, in cui il percorso della pittura a un certo punto si interrompeva senza riempire tutta la tela. Questa impostazione di “non finito” è poi diventata una costante del mio lavoro, significava evitare che un discorso che per sua natura è provvisorio e sempre disponibile alla variazione, non fosse più tale. Era un po’ come non mettere il punto alla fine della frase.
HUO: Questi anni ’68-’69 sono un momento molto ricco in cui tu inventi tante serie diverse…
GG: In realtà non c’è stata alcuna invenzione. Era semplicemente un guardarsi intorno, scrutare in quell’inventario immenso realizzato dall’uomo in almeno 30.000 anni di pittura e trovare le linee, le macchie, i segni, i colori.
Riuscire a seguire l’identità anche solo di una semplice macchia, di un semplice scarabocchio e riuscire a concentrare l’attenzione in modo che fossero loro a parlare anziché io.
HUO: Non ci sono solo macchie, ma anche spugne, impronte…. puoi parlarci di questa diversità…
GG: Ci sono impronte di pollice ripetute sulla tela, impronte di spugna, pennellate di pennelli di differente spessore, i pastelli utilizzati di punta, di piatto, di traverso,… un inventario enorme di segni che mi sono sempre preoccupato di affrontare non per cercare una mia sigla personale da portare avanti, ma per tentare di trarre da ogni segno quella memoria che l’umanità ha costruito in tante migliaia di anni.
L’arte non viene dalla natura, viene dall’uomo.
E l’uomo ha riversato nell’arte una memoria immensa.
Il problema per me era ed è avere tanta umiltà per non prevaricare il segno con la mia volontà e farlo diventare altro, ma mettere in luce semplicemente la sua identità.
HUO: Questo aspetto di lasciare ai segni la loro identità e di non dominarla è anche il soggetto di un tuo bellissimo testo Disembarking in Gilania (ndr. Approdo a Gilania) che mi sembra molto importante per il secolo e il nuovo millennio che stiamo vivendo. Gilania, blend in greco dei termini donna e uomo (ndr. guné e anér), indica una situazione di sviluppo senza imposizione che mi sembra fondamentale per tutto il tuo percorso artistico. Puoi parlarcene?
GG.: Ebbi occasione di leggere un articolo di un’archeologa americana (ndr. Riane Eisler) che aveva dato nome Gilania all’aspetto di “sviluppo paritetico e non gerarchico” di alcune società delle ere più arcaiche, aspetto che si può dedurre dalla pianta dei villaggi. Nell’articolo si fa riferimento a una società che si trova nel nord della Turchia e si sviluppa in modo egualitario. Una società femminile, in cui la donna che porta il mistero della maternità ha una posizione centrale. Tutto questo scompare intorno al 3000 a.C. con l’arrivo dal nord dei popoli guerrieri-cacciatori che la sottomettono. E anche la struttura urbana cambia: nascono la tomba dell’eroe e la casa del capo…. che poi diventerà il castello medievale.
La storia di Gilania è occasione di riflettere sulla circostanza che, da almeno 5000 anni, il nostro sviluppo è stato tutto incentrato sul principio di dominazione: dell’uomo sulla natura, dell’uomo sulla donna, di un popolo su un altro popolo, del re sui sudditi e così via.
Un principio che, soprattutto nell’ambito del rapporto tra uomo e natura, ha portato a risultati altissimi se pensiamo, da un lato, ai risultati della scienza, dall’altro, alla pittura per esempio di Piero della Francesca.
Oggi però la dominazione è diventata troppo pericolosa: Fukushima, Hiroshima, la distruzione della foresta equatoriale, ecc…. Ci vorrà forse ancora qualche secolo, ma poi l’umanità dovrà abbandonarla.
Una transizione che ha una stretta correlazione con quanto è avvenuto e avviene nella scienza, per cui si sta passando da un principio di dominazione sulla natura a un principio di interrelazione con l’intelligenza della natura.
Per fare un esempio – credo di non sbagliare – leggo in questa chiave quanto sta accadendo nella medicina che si mette in colloquio con la cellula per stimolarla affinché sia la cellula stessa a dare una risposta con la sua intelligenza.
Nell’ambito di questo processo vedo l’intuizione simbolica importantissima della mano di Pollock, che già nel 1948 si mette al servizio del colore che cola. È un cambio di atteggiamento fortissimo. Siamo nel periodo informale in cui il principio di dominazione dell’uomo sulla materia viene portato alla sua esasperazione massima. Pollock invece scegli che sia l’intelligenza della materia a lavorare e l’artista a porsi al suo servizio.
In fondo non è una novità, la storia della pittura è costellata di episodi di questo tipo.
Quando siamo passati dal mondo tolemaico a quello copernicano, è arrivato Tintoretto, adesso che stiamo passando dal mondo di Einstein a quello della meccanica quantistica è arrivata la mano di Pollock.
HUO: In questo testo parli anche di Dorazio, Ryman e Anselmo. Ci racconti come sono legati a questa idea della non dominazione.
GG: Prendiamo un esempio simbolico. Anselmo prende un grande triangolo di granito, lo buca nel mezzo, inserisce una bussola e poi orienta la pietra nella stessa direzione della bussola. Una scultura che nasce dall’intelligenza della materia.
Ryman l’ho amato tantissimo perché ho avuto l’occasione felice di intelaiare alcuni suoi lavori che erano arrivati in Italia alla fine degli anni ’60 e ho avuto modo di vedere da vicino il corpo di questi bianco apparentemente anonimo ma pieno di suggestioni.
Mi sembra che Ryman sia appieno in questo discorso.
HUO: Nel testo-manifesto su Gilania sottolinei come nel passato in pittura fosse presente il concetto della prospettiva e l’idea di una direzione singola che va dall’artista all’opera e poi dall’opera allo spettatore. Tu sostieni invece che in questo paradigma di non dominazione il movimento è nelle due direzioni. Parli inoltre di una condizione in cui la narrazione non è determinata, ma è implicita nel segno. Viene allora da chiedersi in questa indeterminazione quale sia il ruolo dello spettatore. Duchamp sosteneva che il suo ruolo fosse del 50%, Dominique Gonzalez-Foerster sostiene sia almeno del 50%…
GG: La doppia direzione penso sia una condizione che è diventata evidente nella nostra epoca, ma ritengo ci sia sempre stata: dal quadro allo spettatore e dallo spettatore al quadro. Nessuno legge mai in modo eguale la stessa opera. Ciascuno la legge secondo ciò che è, ovvero secondo il suo complesso universo di conoscenze, cultura, sensibilità…
Se pensiamo alla musica di Mozart possiamo ragionare allo stesso modo: prese mille persone in una sala da concerto è difficile pensare che tutte sentano e percepiscano la musica nello stesso modo. Io penso proprio non sia così.
Nel nostro tempo è venuto in evidenza un aspetto che c’è sempre stato. Pensate anche alla Divina Commedia, è quasi impossibile che due persone la leggano nello stesso modo.
HUO: Si conclude proprio così il testo su Gilania. Perché hai scelto la Divina Commedia?
GG: Perché penso che quando si parla delle arti siamo tutti figli di Orfeo: poeti, pittori, scultori, musicisti. Quindi – anche se talora non accade – ci sono sempre rapporti tra le varie forme artistiche: il rapporto di partenza che è quello con la conoscenza del proprio tempo, e poi il punto di arrivo che è quello di un presente che si protrae nel futuro per cui l’opera continua a essere viva.
La Flagellazione di Piero della Francesca nasce in pieno mondo tolemaico, in cui l’uomo è lì fisso al centro dell’universo. Poi arriva il mondo copernicano, poi Newton, poi Einstein, poi Heisenberg….. e Piero della Francesca continua a essere presente per noi, non è affatto un reperto. Questo quadro di una bellezza indicibile, continua a parlare.
Di sicuro, dal momento che noi siamo diversi dall’uomo del suo tempo, lo leggiamo in un modo diverso dai contemporanei di Piero della Francesca.
Questo è il percorso che va dallo spettatore al quadro.
L’arte non è solo una benedizione che viene dal cielo, ma anche una benedizione che sale al cielo.
HUO: E come dicevi ciò accade anche nella musica e nella poesia. Dan Graham dice che possiamo capire un artista solo da che musica ascolta. Ho appena scritto una breve storia sugli esperimenti del suono, è un aspetto che mi interessa molto. Ci puoi parlare dei tuoi rapporti con il mondo del suono?
GG: Il tuo è un libro molto bello, perché tra le righe riesci ad afferrare con la forma dell’intervista tantissime suggestioni di ogni genere e grandi aperture che mettono in luce il peso degli artisti in questione.
Non sono un esperto musicologo. Sento musica in continuazione mentre lavoro.
Se mi chiedi più in dettaglio, ti posso dire della felicità che c’è nella musica di Mozart che è molto diversa da un sentimento umano. È un tipo di felicità che ritrovi nella grande pittura, anche quando rappresenta episodi drammatici, proprio perché non è legata a un sentimento.
È ciò che avviene per esempio nel Kaddish di Ginsberg che è una poesia di una bellezza infinita, anche se racconta la vita tragica, pesante e penosissima di sua madre. Il Kaddish è il canto dei morti che lui fa in occasione della morte della madre, eppure contiene una grande felicità.
HUO: La prima volta che ci siamo visti 25 anni fa, mi parlavi molto di poesia. Mi consigliavi di leggere Ezra Pound, abbiamo parlato della beat generation e della memoria di Ungaretti.
Io vivo a Zurigo per cui sono sempre immerso in Dada, e se guardiamo le avanguardie del ‘900 mi pare naturale questa relazione. Mi diceva Cy Twombly che nelle generazioni di oggi manca questo rapporto molto importante tra poeti e pittori. Per te invece mi sembra che sia sempre stato presente. Sono molto curioso di conoscere meglio il tuo rapporto con la poesia e sei hai contatti con poeti di oggi?
GG: Per me il rapporto con la poesia, come quello con la musica, è un rapporto costitutivo. “Rubo” quello che mi serve per la mia pittura, quindi ne parlo da un punto di vista molto parziale. Non ho rapporti diretti con poeti di oggi, ma ho rapporti profondi con la poesia in sé. Per esempio continuo a leggere e rileggere i Cantos, perché questo Pound al primo incontro è sconvolgente, ti lascia afferrare che c’è qualcosa di grande, ma solo nella rilettura scopri la sua ricchezza immensa.
Facciamo un’altra riflessione. Noi siamo abituati a utilizzare un linguaggio diretto, perché dal momento in cui è stata inventata la scrittura siamo stati in grado di fissare in modo diretto fatti e nozioni senza dover più aiutare la memoria. Era tutto trasferito e trasferibile su carta.
Prima dell’invenzione della scrittura invece l’uomo aveva inventato uno strumento straordinario, il linguaggio per metafora, capace di raggrumare un condensato enorme di conoscenza in piccoli racconti.
Ne è un esempio il mito di Orfeo, che ancora oggi dimostra la sua ricchezza.
La poesia, come la pittura e la musica, non ha abbandonato il linguaggio per metafora. Un fatto molto importante perché ogni parola tenuta in quelle condizioni, cosi come ogni segno, è anche metafora. Va oltre il suo significato.
La parola della scienza è esatta e circoscritta, non va e non deve andare oltre.
La parola della poesia invece contiene in sé una forte contaminazione. Contaminazione fonte di vita, così come accade in natura. È più vasta di quello che dice. Ha una felicissima ambiguità.
E questa dell’ambiguità, che talvolta può essere mossa come accusa, a mio parere è una grande qualità.
HUO: Vorrei che ci parlassi di altre epifanie. Arriviamo a fine anni ’70, e agli anni ’80, in cui tu elabori una serie di frammenti che costituiscono alcuni lavori straordinari presentati per la prima volta alla Biennale di Venezia dell’80. Penso alla grande installazione Dioniso. Mi pare un nuovo capitolo, cos’è accaduto in quel momento?
GG: Mi sono reso conto che non potevo passare tutta la vita a tirare delle linee o fare segni con il pollice. Essere pittori comporta anche il rischio di fare quello che devi fare, anche se magari non vieni più accettato dal mercato, o se in parte contrasta con quello che ti è stato già riconosciuto.
Ho avvertito la necessità di confrontarmi con la pluralità di segni, con un discorso che diventa sempre più articolato che ha portato a lavori come Dioniso.
Dioniso era costituito da 23 tele trasparenti di 3 metri per due, di una specie di garza, la tarlatana, con cui veniva fatto il tutù delle ballerine. Le tele venivano appese sulla parete sovrapposte in modo che tramite le trasparenze i segni potessero dialogare tra di loro, creando un colloquio più complesso.
La pluralità dei segni si è poi puntualizzata anche in Alter Ego, un ciclo che contiene lavori realizzati pensando ad altri artisti e di altre epoche.
Ci sono lavori su Matisse, Merz, Anselmo, Tintoretto, sul Lacoonte, sulla pittura medievale, su Paolo e Piero… un lavoro che mette insieme Piero Dorazio e Paolo Uccello. Una riflessione sulla pittura che è diventata sempre più complessa e che poi ha aperto la strada per questa riflessione ultima che è quella in cui mi confronto con il numero aureo.
HUO: Quando sono venuto in visita da te la prima volta nell’86 non c’erano numeri sulle tele, e ora che sono venuto a trovarti in studio i numeri sono molto presenti. Se non sbaglio sono arrivati agli inizi degli anni ’90…
GG: Sì, sono arrivati che tu avevi più o meno vent’anni. I primi numeri sono comparsi nel ciclo di lavori Tre linee e un arabesco, caratterizzati dal fatto che tutte le tele contenevano questi semplici elementi. In quel ciclo i numeri segnavano il progredire delle tele all’interno del ciclo, ovvero l’1 la prima tela, il 2 la seconda, e così via…
Poi c’è stato il ciclo delle Numerazioni, in cui i numeri servivano a dare l’informazione sulla sequenza interna dei segni sulla singola tela, per cui in ogni quadro l’1 era il primo segno posto sulla tela, il 2 il secondo, e così via.
E in seguito è iniziata la riflessione sul numero aureo.
HUO: Ti ricordi del momento esatto in cui il numero aureo è arrivato nell’opera, perché è un momento importante visto che adesso è in tutti i lavori…
GG: Farei una premessa. Quando la scienza positivista pensava che l’ignoto fosse soltanto quella parte di mondo che non era conosciuta, ma che l’uomo sarebbe comunque riuscito a dominarla nel futuro, l’arte se ne è andata via per conto suo con il Romanticismo. Perché il compito dell’arte fin dai tempi di Orfeo è quello di entrare nell’ignoto.
Quando, a partire dal principio di indeterminazione di Heisenberg, la scienza ha ripreso a considerare l’ignoto come qualcosa di molto più complesso, da rispettare e da trattare con umiltà, i rapporti tra la scienza e l’arte si sono ravvicinati.
In questa prospettiva ho visto nel numero aureo un punto di riferimento importante.
Sono debitore, in tal senso, a Mario Merz che ha intuito questa possibilità di organizzare il discorso dell’arte con riferimento anche all’apporto delle scienze e in un rapporto con l’antico. Il rapporto di Merz era con la serie di Fibonacci e tracciava un filo con il 1200.
Il mio con il numero aureo va ancora più in là nel tempo e si riallaccia a Euclide, che ha fissato il rapporto aureo.
Ovvero quel rapporto che noi pittori e artisti conosciamo da sempre, che da vita per esempio
al tempio greco del Partenone.
Questo numero ha due caratteri straordinari. In primis è un numero che i matematici chiamano irrazionale, ovvero è un numero di infinte cifre che non finirà mai: sono 2300 anni che procede e continuerà a procedere fino alla fine dei tempi.
Dall’altro lato, sul piano dello spazio, pensate che 1,6… non diventerà mai 1,7, così come 1,618 non diventerà mai 1,619… è come un imbuto che diviene sempre più piccolo e non finirà mai di rimpicciolire. L’unico modo per darne una definizione accettabile dalla ragione è dire che si immerge nell’ignoto.
Quindi in questi due aspetti, la cancellazione del tempo e l’immersione nell’ignoto, vedo una parentela stretta con il mito di Orfeo.
Orfeo entra nell’Ade per cercare Euridice. Fuor di metafora entra nell’ignoto per cercare la sua parte creatrice, ovvero la parte femmina, la parte della nascita. Così come il numero aureo entra nell’ignoto.
Inoltre c’è il tempo. Come accennavo prima l’opera nasce sulla cultura del suo tempo e vive anche nel tempo successivo. Se pensiamo ai Canti orfici, Orfeo narra degli dei. Da un lato sceglie un argomento su cui le scienze non potranno mai dire nulla, ma dall’altro lato, utilizzando la cultura del suo tempo costruisce una metafora straordinaria della condizione umana che è viva al nostro tempo come era viva allora.
Chiaramente oggi si legge in modo diverso, perché noi siamo diversi da allora.
Poi c’è l’aspetto del rapporto con la ragione. Di fronte al numero aureo la ragione deve riconoscere il suo limite. Di fronte a un numero che non finirà mai e che si immerge in qualcosa che per riuscire a comprendere dobbiamo attivare tutte le nostre capacità di intuizione e immaginazione.
La poesia ha bisogno della ragione, questo lo dicevano già Dante Alighieri e Italo Calvino, e la ragione si pone al servizio della poesia… poi Calvino aggiunge: sapendo che comunque la ragione sarà sconfitta.
La ragione ci accompagna fino al suo proprio limite e poi continua ad accompagnarci anche oltre, se non altro per renderci consapevoli che stiamo utilizzando altri strumenti che sono appunto quelli che aprono le porte della poesia.
Quando Orfeo si gira ed Euridice scompare, la lettura solita è quella che Orfeo ha trasgredito all’ordine di non girarsi e viene punito con la scomparsa di Euridice.
Io sono convito si possa dare un’altra lettura. Punto di vista mio personalissimo.
Intanto l’equazione delitto-castigo non appartiene al mondo greco. Noi veniamo dalla tradizione cristiano-ebraica in cui la religione ha posto il codice: i dieci comandamenti.
In Grecia i codici li ha posti Solone. Gli dei greci ne combinano tali e tante che in una qualsiasi società civile sarebbero tutti in galera o in manicomio. Primo di tutti Giove tra parricidio, truffe, omicidi, stupri e via dicendo.
L’idea della punizione è fuori dalla tradizione greca. Inoltre nel caso così fosse sarebbe sproporzionata, una semplice disobbedienza viene punita in un modo talmente violento: la scomparsa di Euridice è peggio della sua morte.
A mio parere la metafora ha un altro significato: non girarti indietro significa non girarti per tornare ai limiti della ragione.
Girarsi indietro è compiere l’atto razionale della verifica e allora Euridice scompare perché il sovrappiù scompare. La nostra capacità di percepirlo ce la siamo tolta tornando alla regione con il gesto della verifica.
HUO: Non potrebbe esserci conclusione più bella. Tuttavia nelle mie interviste c’è una domanda che ricorre e che voglio ancora farti. Quali sono i progetti non ancora realizzati? Troppo grandi? Troppo piccoli? Censurati? Dimenticati? O progetti di arte pubblica?
GG: Qui mi chiedi di nuovo una memoria a classificatore che non sono in grado di utilizzare.
Vi racconterò un episodio. Quando ripresero i concorsi della legge del 2%, mandai anche io a Roma un progetto per un mosaico. Vari artisti romani frequentavano in quei giorni quel corridoio del Ministero per vedere cosa sarebbe capitato in commissione. Furono loro a raccontami – e quindi probabilmente è vero – che a un certo punto si aprì la porta e uscì un commissario tutto felice: «Abbiamo avuto un successo enorme, hanno mandato materiali anche i bambini!»
Avevano aperto il mio lavoro. Allora non ho più concorso ad altri bandi.