Qualcuno si chiede e ci chiede: perché non vietare qualsiasi attività fuori pista quando il bollettino neve segnala un pericolo valanghe 3 o superiore? Quella che segue non è solo la mia risposta, ma quella di tante guide alpine e riders esperti conosciuti in questi anni di pratica.
Partiamo da un presupposto condiviso: gli incidenti non piacciono a nessuno. Molti sono dovuti a situazioni che si potevano evitare con un po’ di intelligenza e preparazione. Tuttavia è bene ricordare che non tutti appartengono a questa categoria.
Il rischio non è e non sarà mai pari a zero, in montagna come altrove.
Bisogna quindi imparare a valutarlo e capire come possiamo intervenire per ridurne la componente – spesso rilevante – che dipende dalle nostre scelte e dalla nostra preparazione… poi però, se non si vuole rimanere paralizzati, si deve accettare il rischio residuo e imparare a gestirlo.
È una forma di educazione personale molto importante per la vita di ognuno.
Ma un divieto tout-court raggiungerebbe davvero l’obiettivo di ridurre gli incidenti?
In primis, che effetto sortirebbe su azioni e psicologia degli sciatori e degli operatori? Probabilmente avrebbe effetto sui più responsabili di entrambe le categorie – ovvero i più sensibili alle regole – disincentivando a praticare coloro che avrebbero comunque scelto opzioni a basso rischio. Mentre potrebbe addirittura avere un pericoloso effetto boomerang di promuovere una nuova forma di “trasgressione” per chi la testa sul collo, di suo, già non vuole metterla.
Non ha forse sempre sortito questo effetto il proibizionismo?
In secundis, va detto che un tale provvedimento non sarebbe in linea con quanto accade oltre confine.
L’idea di vietare indiscriminatamente ogni attività fuoripista è prettamente italiana, ed è legata a una filosofia e un’abitudine consolidata che porta nel nostro Paese a delegare la nostra responsabilità a qualcun altro o qualcosa di esterno – in questo caso una regola di divieto.
Praticamente in tutti gli altri Paesi dove si pratica freeride, a partire dai nostri vicini francesi e svizzeri nelle Alpi, per arrivare a Stati Uniti e Canada, vige in montagna al di fuori del battuto la filosofia “at your own risk” (a tuo rischio).
La montagna è da sempre spazio di libertà, luogo di confronto, di esplorazione e di formazione personale. Chiunque la frequenti lo sa e la ama anche per questo. Innescare il processo di “normare” significherebbe spogliarla progressivamente di questi valori e mettere in gabbia uno degli ultimi spazi liberi.
Terzo e ben più grave: delegare a una regola esterna la propria sicurezza, manderebbe in fumo la possibilità di proporre una corretta formazione al pubblico sempre più vasto che desidera praticare freeride.
Diffonderebbe invece la mentalità “se è permesso è sicuro, altrimenti sarebbe vietato”, dimenticando che la maggiorparte degli incidenti avvengono con rischio 2 e 3, ovvero in quella zona grigia dove è proprio la capacità di leggere le condizioni e discernere a fare la differenza.
Anche le responsabilità e le pressioni su chi realizza il bollettino non sarebbero fattori trascurabili. Chi può garantire che l’asticella tra 2 e 3, ovvero la zona più critica per gli incidenti, non verrebbe alterata?
È la convinzione che tutto debba essere sicuro e garantito tale, a far sì che, troppo spesso, sempre più persone evitino di pensare, di capire le situazioni e di adattare le loro azioni di conseguenza. Si fanno strada nelle menti pensieri insidiosi: “tanto non mi riguarda”, “tanto a me non può accadere”.
È questo approccio, e l’atteggiamento che ne deriva, a farci correre i rischi più alti.
Certo la libertà richiede maggiore educazione, maggiore consapevolezza, maggiore responsabilità nelle nostre scelte. Non ci si improvvisa freerider, così come non ci si improvvisa alpinisti. Non si può pensare che basti la formazione tecnica da sci di pista per affrontare in sicurezza itinerari non battuti.
È la conoscenza la chiave di volta del problema, cui devono aggiungersi alcuni ingredienti irrinunciabili e insostituibili, che fanno capo a quel buon senso che nessuna regola potrà mai sostituire.
È necessaria una giusta gradualità nell’apprendimento e nella pratica sportiva in modo che ciò che facciamo sia sempre commisurato alle nostre capacità tecniche, all’allenamento e alla nostra preparazione in materia di sicurezza, di valutazione dell’ambiente e delle condizioni di stabilità della neve.
È fondamentale la capacità di saper rinunciare o scegliere opzioni differenti. Se anche arriviamo in cima a un impianto aperto e troviamo condizioni che non siamo in grado di affrontare in sicurezza, dobbiamo essere pronti con la giusta umiltà a riprendere l’impianto per scendere a valle.
È essenziale inoltre consultare le guide alpine, in caso di dubbi ma anche come buona abitudine per informarsi sul luogo. Sentire il loro parere significa attingere a un patrimonio di professionalità che in Italia abbiamo la fortuna di avere a portata di mano.
Inoltre rimane indispensabile la preparazione: esistono corsi per il soccorso e l’autosoccorso in valanga che troppo spesso – anche a fronte di offerta gratuita o quasi – vedono pochi iscritti. Tutti coloro che fanno freeride li dovrebbero frequentare. E ogni anno dovrebbero rinnovare la pratica, approfittando magari delle “giornate no”, per esercitarsi.
Detto ciò, è più che benvenuto un divieto puntuale e sensato in situazioni caratterizzate da condizioni particolarmente critiche, che possano mettere a rischio la sicurezza di aree frequentate dal grande pubblico, oppure in aree che necessitino di una particolare tutela ambientale. Ma la strada del divieto a tutti i costi è senza via d’uscita e non giova a nessuno.
Freeride: perché non vietare - G. Caresio - SCI323 (pdf - 1.4 MiB)