Lo sguardo dell’ingegner Gadda è sempre stato rivolto al futuro. In questo testo, in cui l’italiano è utilizzato come bisturi e pennello insieme, Gadda delinea le buone norme per un redattore radiofonico. Una serie di indicazioni e suggerimenti che scritti da altra mano risulterebbero quanto di più tedioso, e che invece risultano qui decisamente godibili e quanto mai attuali, perfettamente aderenti alla realtà di internet e della scrittura che la popola. L’augurio è che un’attenzione a linguaggio e contenuti possa ricollocare lo scritto in quella posizione dignitosa, elegante, corretta e centrale che gli compete, senza per questo mancare di sintesi, ironia e leggerezza.
Dal momento che trovare questo testo è ormai una piccola impresa (io incredibilmente devo dire grazie a Facebook e all’amica Rossella), anche in questo mare magnum di internet dove erroneamente siamo convinti tutto si possa trovare, ho deciso di riportarlo per intero, senza omissioni o modifica alcuna. Mi sono solo permesso, ad uso di chi voglia scorrerlo più rapidamente o di chi per motivi di tempo non possa concedersi una lettura integrale, alcuni lievi neretti che individuano il tema del paragrafo in questione.
È una lettura estremamente piacevole e quasi irrinunciabile, credo, per tutti coloro che si occupano oggi della cosiddetta «comunicazione», scritta e non, su internet e altrove. Buon godimento.
Inderogabili norme e cautele devono osservarsi da chi parla al microfono o predispone, scrivendolo, un testo per la Radio. La mancata oservanza di dette norme e cautele, può rendere «intrasmissibile» uno scritto anche se per altri aspetti eccellente. La Direzione del Programma si viene a trovare, in tal caso, nella ingratta condizione di non poterlo mandare in onda. Notiamo che le regole fondamentali del parlato radiofonico esprimono una esigenza tecnica – intrinseca adattabilità dello scritto al mezzo che lo diffonde – oltrechè un diritto economico e mentale del radioascoltatore abbonato, il quale, pagando un «servigio», chiede che questo «servigio» venga reso nei termini dovuti.
Per il radioascolto i termini dovuti sono: accessibilità fisica, cioè acustica, e intellettiva della radiotrasmissione, chiarezza, limpidità del dettato, gradevole ritmo.
Da ciò discendono le seguenti osservazioni:
La sopportabilità massima del parlato-unito, in Italia, è di quindici minuti. La voce unica e fusa erogata dal graticcio del radioapparecchio, in quanto non soccorsa dalla prestanza fisica, dalla gestizione o dall’atteggiamento di chi parla, annoia l’ascoltatore italiano dopo quindici minuti, quali che siano la forma o il contenuto dell’allocuzione. A quindici minuti di parlato corrispondono sentottanta righi dattiloscritti. Nessuna conversazione da trasmettere «a una voce» può superare questo limite.
Ove si preveda una conversazione di maggior durata, bisogna costruirne il testo in modo da poterlo «dire» a due voci, a tre voci, a più voci. Chi predispone il testo deve elaborarlo in forma di dialogo, sia ricorrendo alla dialettica domanda-risposta, sia a quella per tesi-antitesi, sia ancora (più blandamente) a una successione di fasi espressive di cui l’una consegua all’altra con un certo distacco sviluppandola e completandola. Per portare avanti il dialogo, negli scritti di carrattere narrativo destinati alle stampe, è di comune impiego il vergo «soggiungere»: «ne sarà felice!», soggiunse Teresa. Il parlato radiofonico a due o più voci può risultare da una consecuzione di momenti espressivi di cui l’uno venga idealmente «soggiunto» all’altro, a cura dell’autore. In tal modo, affidando i successivi periodi ovvero momenti espressivi a voci alterne, è possibile ottenere ascolto fino a trenta-quaranta minuti.
Un’altra soluzione del problema «durata», un accorgimento che permette, usando voci multiple e alterne, di protrarre il «conversato radio» fino a trenta-quaranta minuti senza tedio di chi ascolta, è il metodo della citazione, frammessa al discorso di chi parla. Appare ovvio che l’allocuzione al microfono, quand’anche sia sorretta e portata avanti da un solo dicitore, può tuttavia comportare adduzioni di testimonianze, esempi, modelli, prove, a sostegno o a conferma o a rincalzo dell’asserzione fatta. I passi per tal modo citati offriranno un appiglio naturale all’alternanza delle voci. Si tratterà di riferire dei giudizi altrui, dei brani di lettera, delle pagine di diario, di richiamare dei proclami, dei canti popolari, delle note diplomatiche, delle invettive, le due quartine d’un sonetto; di affidare pertanto a una diversa voce ogni tratto che risulti concettualmente e però foneticamente caratterizzato: voce per Ugo Foscolo, voce per i proclami di Bonaparte, voce per le lettere di Giuseppe Verdi, voce femminile per quelle della di lui consorte signora Giuseppina Strepponi in Verdi. Il passo citato, i verbi sciolti, la confessione, la lettera, il mezzo sonetto, il diploma, il proclama, saranno detti, o letti, da una voce seconda o terza o quarta, giusta l’opportunità; la quale o le quali voci si alterneranno alla prima, cui è affidato il discorso principale, il testo dell’autore.
Nel caso tipico e in un certo modo esemplare di allocuzione radiofonica da cui venga presentato un autore o un gruppo di autori (poeti, politici, scienziati, romanzieri, filosofi) con cui si intenda tratteggiare il carattere di un maestro del pensiero o dell’arte, o di una scuola filosofica, o di un ambiente, o di un’epoca della cultura, le testimonianze addotte, cioè i versi o le prose, gli espunti da diari o memorie o lettere dell’autore o degli autori di cui si discorre, devono superare in estensione il commento critico, l’esposto informativo: il quadro, in altri termini, non dev’esser sopraffatto dalla cornice. L’espositore non prevalga sulla sua vittima!: è questo il memento primo e assoluto. Oggettivo, tempestivo, parco, elegante, l’esposto è bene non oltrepassi un terzo al massimo i due quinti della durata (del minutaggio) totale disponibile. Due terzi o al minimo tre quinti siano serbati alle testimonianze «poetiche», cioè alla erogazione diretta dell’autore, degli autori. In un ogmaggio a Goethe, in un ritratto di Victor Hugo, in uno studio leopardiano o dantesco, «parlino» Goethe e Victor Hugo, parlino Dante e il Leopardi per i due terzi o, al minimo, per i tre quinti del tempo.
Compito del presentatore è quello di rendere, del commemorato o dei commemorati, un’immagine evidentee in quanto possibile obiettiva, non quello di insabbiarne l’effigie col polverino della propria autorità. Un eccesso di autorevolezza viene a cancellare quelle fattezze appunto alle quali si voleva conferire evidenza e risalto. Il pubblico, se pure si interessa al presentatore, vuol conoscere il presentato; vuole prose da chi racconta, vuole versi dal poeta: testimonianze dirette.
Se accade che la conversazione abbia fonti prevalentemente bibliografiche o verta su tema dottrinale o comunque erudito, è bene dissimulare la qualità delle fonti o la natura del tema, dar corpo di più concrete ed evidenti immagini all’esposto tecnico, alla sillogeastratta. Il microfono mal sopporta un’allocuzione di origine «mentale» e di timbro didattico, domanda piuttosto una recensione informativa (e sia pure acuta, nei giudizi che nella informazione si desumano) redatta in forma chiara, spedita elegante. Meglio se il redattore potrà studiarsi di attingere da più fonti, riuscendo l’una fonte di antidoto, o viceversa di conforto critico, all’altra.
Il tono accademico o dottrinale è da escludere: solo per eccezione adeguatamente giustificata dall’occorrrenza, potrà ammettersi il tono sostenuto della prolusione universitaria, il timbro patetico e solenne del «discorso per la morte di Giuseppe Garibaldi» (Carducci) o la bronzea sintassi de «L’opera di Dante» (Carducci). Resosi defunto anche Gabriele D’annunzio, la «orazione» è alquando decaduta nel gusto del pubblico. La «orazione per la morte di Giuseppe Verdi» recitata da Gabriele al Teatro Dal Verme di Milano non potrebbe essere utilmente rifatta al microfono «per la morte di Arnold Schoenberg».
Il pubblico che scolta una conversazione è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di «persone singole», di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di «pochi intimi». Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza. È bene perciò che la voce, e quindi il testo affidatole, si astenga da tutti quei modi che abbiano a suscitare l’idea di un’allocuzione compiaciuta, di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante. Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascoltatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico. I suoi meriti e la sua competenza specifica sono sottintesi, o per meglio dire sono già enunciati dal nome, dalla «firma». Il pubblico, e quindi i singoli ascoltatori, già sa, già sanno che la Radio Italiana invita al microfono i «grandi» e le «grandi» vale a dire i competenti.
All’atto di redigere il testo di un parlato radiofonico si dovrà dunque evitare in ogni modo che nel radioascolatatore si manifesti il cosiddetto «complesso di inferiorità culturale», cioè quello stato di ansia, di irritazione, di dispetto che coglie chiunque si senta condannare come ignorante dalla consapevolezza, dalla finezza, dalla sapienza altrui. Questo «complesso» determina una soluzione di continuità nel colloquio tra il dicitore e l’ascoltatore, crea una zona di vuoto, un «fading» spirituale nella recezione. Ad ovviare la qual calamità radiofonica è in particolare consigliabile:
a – in ogni evenienza astenersi dall’uso della prima persona singolare «io». Il pronome «io» ha carattere esibitivo, autobiografante o addirittura indiscreto. Sostituire all’ «io» il «noi» di eimbro resocontistico-neutro, o evitare l’autocitazione. Al giudizio: «Io penso che la “Divina Commedia” sia l’opera maggiore di Dante», sostituire: «La “Divina Commedia” è ecc.»;
b – astenersi da parole o da locuzioni straniere quando se ne possa praticare l’equivalente italiano. Usare la voce straniera soltanto ove essa esprima una idea, una gradazione di concetto, non per anco trasferita in italiano. Per tal norma inferiority-complex, nuance, Blitz-Krieg e chaise-longue dovranno essere sostituiti da complesso d’inferiorità, sfumatura, guerra lampo e sedia a sdraio: mentre sefl-made man, Stimmung, Weltanschaung, romancero, cul-de-lampe e cocktail party potranno essere tollerati;
c – evitare gli sterili elenchi dei nomi di persona quando non si possono caratterizzare o comunque definire le persone chiamate in causa. Meglio omettere dei «nomi da manuale», che infastidire l’ascoltatore citando nomi destinati a spegnersi appena pronunziati, come faville lanciate addietro per un attimo dalla corsa d’una locomotiva;
d – operare analogamente con le date. In un esposto di carattere storico le date costituiscono opportuno ammonimento, gradito appoggio e gradita eccitazione per la memoria. Tali appaiono al viaggiatore le indicazioni chilometriche. DElle date si dovrà misurare il valore e l’intercorrenza più conveniente. Si dovranno gerarchizzare, distanziare le une dalle altre; e porgerle comunque con garbo all’attenzione di chi ascolta, quasi le richiedesse opportunità, necessità;
e- astenersi dal presupporre nel radioabbonato conoscenze che «egli», il «qualunque», non può avere e non ha. Inibirsi la civetteria del dare per comunemente noto quello che noto comunemente non è. A nessun uomo, per quanto colto, si può chieder di essere una enciclopedia. I lemmi dell’enciclopedia rappresentano la fatica di migliaia di collaboratori;
f – entrare subito o pressochè subito in medias res: non tener sospeso l’animo del radioascoltatore con lunghi preamboli, con la vacuità di premonizioni superflue che il valore cioè il costo del tempo del radioparlato sono ben lontani dal giustificare, dall’ammettere.
Ciò avvertito, ecco le regole generali assolute per la stesura di ogni testo radiofonico, generali cioè valide per qualunque tipo di testo radiofonico:
1 . Costruire il testo con periodi brevi: non superare in alcun caso, per ogni periodo, i quattro righi dattiloscritti; attenersi, preferibilmente, alla lunghezza normale media di due righi, nobilitando il dettato con i lucidi e auspicati gioielli dei periodi di un rigo, mezzo rigo.
2. Procedere per figurazioni paratattiche, coordinate o soggiuntive, anziché per figurazioni ipotattiche, cioè per subordinate (causali, ipotetiche, temporali, concessive). All’affermazione: «Cesare, avendo accolto gli esploratori i quali gli riferirono circa i movimenti di Ariovisto, decise di affrontarlo», sostituire: «Cesare accolse gli esploratori. Seppe dei movimenti di Ariovisto e decise di affrontarlo».
3. Il tono gnomico e saccadé che può risultare da un siffatto incanalamento e governo della piena (di idee) non dovrà sgomentare preventivamente il radiocollaboratore. Una dopo l’altra le idee avranno esito ordinato e distintamente percepibile al radioapparecchio: una fila di persone che porgono il biglietto, l’una dopo l’altra, al controllo del guardiasala. La consecuzione delle idee si distende nel tempo radiofonico e deve avere il carattere di un «écoulement», di una caduta dal contagocce. Ogni tumultuario affollamento di idee nel periodo sintattico conduce al «vuoto radiofonico».
4. Sono perciò da evitare le parentesi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche. La regìa si riserva di espungere dal testo parentesi e incisi e di tradurli in una successione di frasi coordinate. Una parentesi di più che sei parole è indicibile al microfono. L’occhio e la mente di chi legge arrivano a superare una parentesi, mentre la voce di chi parla e l’orecchio di chi ascolta non reggono alla impreveduta sospensione. Nel comune discorso, nel parlato abituale, nella conversazione familiare non si aprono parentesi. Il microfono e il radioapparecchio con lui, è parola, è discorso. Non è pagina stampata. La parentesi è un espediente grafico e soltanto grafico. Seguendo nel parlato un’idea, non è opportuno abbandonarla a un tratto per correr dietro a un’altra in parentesi. E meglio liquidare la prima, indi provvedere alla seconda; così il cane da pastore azzanna l’una dopo l’altra le pecore per ricondurle al gregge: non può azzannarle a tre per volta. Congiunzioni temporali e modali e gentilmente avversative (dunque, pertanto, in tal caso, per tal modo, per altro, ma, tuttavia) permetteranno di agire in ogni evenienza con risultati apprezzabili, senza ricorrere a incisi, a parentesi.
5. Curare i passaggi di pensiero e i conseguenti passaggi di tono mediante energica scelta di congiunzioni o particelle appropriate, o con opportuna transizione, o con esplicito avviso (omettere l’avviso, la frase di transizione, unicamente allorché il passaggio possa venir affidato alla voce). L’ascoltatore non è profeta e non può prevedere «quando» il discorso muterà, «quando» il dicitore lascerà un’idea, o un seguito d’idee e d’argomenti, per venire ad altro.
6. Evitare le litòti a catena, le negazioni delle negazioni. La litòte semplice – negare il contrario di quel che si intende affermare – è gentile e civilissima figura. Molto redditizia al microfono e in ogni forma di discettazione ragionata o di esposto critico o storico, attenua la troppo facile sicurezza o l’asprezza eccessiva di chi afferma: crea un distacco ironico dal tema, o dal giudizio proferito. «Questa lirica non è malvagia». «La prosa del Barbetti non è delle più consolanti».
Ferale risulta invece all’ascolto la catena di litòti.
Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell’ascoltatore si smarrisce nella giungla dei «non». Ogni «non» della tormentosa trenodìa precipita dal cielo del nulla a smentire il precedente, per essere a sua volta smentito dal seguente. Una doppia litòte è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di terzo grado. Sarà bene vincere pertanto la seguente catena di tentazioni: «Non v’ha chi non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che si debba ricusare di respingere una sistemazione che non torna certo a disdoro della Magnifica Comunità di Ampezzo». Più radiofonico: «Tutte le persone di buon senso vorranno ammettere che la sistemazione onorevole proposta dalla Magnifica Comunità di Ampezzo è senz’altro accettabile».
7. Evitare ogni infelice ricorso a poco aggiudicabili pronomi determinativi o disgiuntivi o numerali o indefiniti, a modi qualificanti o indicanti comunque derivati o desunti dal pronome o dal numero: quello-questo, l’uno-l’altro, il primo-il secondo, esso, quegli, chi, ognuno, il quale, qualsivoglia d’essi, egli, ella, quest’ultimo. Deve apparir chiaro in su le prime a quali termini di una serie enunciata i detti pronomi si riferiscono. In caso contrario è meglio ripetere il termine, cioè il nome. Dopo aver elaborato una struttura sintattica risplendente di quattordici sostantivi singolari maschili uno via l’altro, il riattaccarsi con un “quello” o un “esso” all’uno dei quattordici (a quale?) induce l’ascoltatore in uno stato di tragica perplessità circa l’attribuzione del disperso trovatello (esso, quello) all’uno piuttosto che all’altro dei nomi proferiti. Evitare, possibilmente, di mettere in cantiere una frase come questa: «Il veleno del dubbio e per contro il timore del peggio si erano insinuati fin dal vecchio tempo, e in ogni modo dopo il recente conflitto, non forse nell’insicuro pensiero ma certo nel tremante cuore del popolano di borgo e del valvassore di castello in tutto il territorio (tanto nel fertile piano che sul colle amenissimo) del piccolo ducato e del congiunto priorato, protetti entrambi contro il tentato sopruso dell’esercito di Conestabile e contro il sistematico assedio del reggimento di Catalogna dall’impeto stagionale dell’affluente del Rodano, e sovrastati a tergo dal nero massiccio del Courtadet, già ricetto di un antico raduno conventuale ed ora di un pauroso brigantaggio: quello non meno sciagurato di questo». Dove «quello» può riferirsi a: veleno del dubbio, vecchio tempo, insicuro pensiero, popolano di borgo, fertile piano, piccolo ducato, sopruso dell’esercito del Conestabile, impeto dell’affluente del Rodano, antico raduno conventuale.
8. Evitare le rime involontarie, obbrobrio dello scritto, del discorso, ma in ogni modo del parlato radiofonico. Una rima non voluta e inattesa travolge al ridicolo l’affermazione più pregna di senso, il proposito più grave. La regìa si riserva la facoltà di emendare dal vezzo d’una rima il testo che ne andasse eventualmente adorno.
9. Evitare le allitterazioni involontarie, sia le vocaliche sia le consonantiche, o comunque la ripetizione continuata di un medesimo suono. Le allitterazioni sgradevoli costituiscono inciampo a chi parla, moltiplicano la fatica e la probabilità di errore (pàpera). Ciò che è peggio interrompono l’ascolto con dei tratti non comprensibili, e non compresi di fatto. All’udire, talvolta, certe frasi di romanza, non si percepisce il significato dei vocaboli, che escono frantumati dalla gola di chi canta: il motivo musicale, ossia l’aria, appoggiato sugli «are» e sugli «ore» di un poetico nonsense, ci avvince con la sua mélode, esaudisce da solo la nostra sete di bellezza.
Ma il parlato radiofonico non è pretesto o supporto a una frase musicale; deve essere compreso per se stesso; il suo valore deriva unicamente dal contenuto logico. Un esempio di allitterazione vocalica: i versi danteschi:
Suso in Itàlia bella, giàce un làco
E quella a cui il Sàvio bàgna il fiànco
orchestrati in a sulle sedi toniche, risultano difficilmente comprensibili all’apparecchio: si risolvono in una irruzione di a nella tromba timpanica dell’ascoltatore frastornato; irruzione a cui non corrisponde, per cause meramente fisiche, un adeguato fissaggio di immagini.
10. Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un léssico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:
a) i modi e i vocaboli antiquati;
b) i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;
c) i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p. e. della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;
d) i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;
e) i modi e i vocaboli astratti.
11. Evitare le forme poco usate e però «meravigliose» della flessione, anche se provengono da radicali (verbali) di comune impiego. Non tutti i verbi sono utilmente coniugabili in tutti i tempi, modi e persone. È questa una superstizione grammaticale da cui dobbiamo cercare di guarirci. Il verbo rappattumarsi genera uno sgradevole e male assaporato ti rappattumi (seconda singolare indicativo presente), il verbo agire genera, al primo udirlo, un incomprensibile agiamo (prima plurale indicativo presente), il verbo svellere uno svelsero (terza plurale indicativo remoto) alquanto indigesto, il verbo dirimere e il verbo redigere degli insopportabili perfetti. Tali mostri sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità congenita.
[redatto su incarico della Direzione del Terzo Programma della Radio Italiana]
Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico, ERI (Edizioni Radio Italiana) 1953.
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