Dalle prime tavole autoprodotte a Verbier, al parallelo con il surf sulle onde dell’Oceano indiano, una storia personale e collettiva tra sport e lifestyle, raccontata dalla voce del simpatico e geniale Nicolas Hale-Woods, promotore e protagonista di quest’avventura fin dai primi passi.
Un’occasione per celebrare l’edizione speciale 2013 del Freeride World Tour che ha inglobato il North-American Freeskiing World Tour e i The North Face Masters of Snowboarding creando un unico circuito mondiale di free-ride big mountain.
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(articolo pubblicato su ALP288 – marzo/aprile 2013 – pagg. 18-28)
di Giulio Caresio
Mentre scriviamo il grande Circus del Freeride World Tour 2013 si prepara per l’appuntamento finale dell’Xtrème di Verbier. Quando leggerete queste righe sarà già passato questo epico evento che chiude la stagione incoronando i migliori rider (trovate i risultati a lato con un aggiornamento dell’ultimo minuto), ma soprattutto offrendo uno spettacolo che, a dire di tutti, non ha eguali nel suo genere.
La ripida, varia e selvaggia parete nord della Bec de Rosses su cui tutto è iniziato, continua – a diciassette anni di distanza dalla prima edizione dell’Xtreme – a svelare nuove linee e possibilità, rivelandosi terreno di espressione unico per gli atleti e arena senza pari per chi li osserva.
E allora per celebrare la fine di quest’edizione speciale del FWT 2013, che ha inglobato il North American Freeskiing World Tour e i The North Face Masters of Snowboarding creando un unico circuito mondiale di freeride big mountain, facciamo un salto indietro nel tempo per capire come si è arrivati fin qui.
Grazie alla voce del simpatico e geniale Nicolas Hale-Wood che è stato promotore e protagonista di quest’avventura fin dai primi passi, riviviamo la passione e i passaggi cruciali di una storia personale e collettiva di cui poco si è parlato e che vale davvero la pena conoscere.
Com’è nata la passione che ti ha portato a creare il più importante evento di freeride del pianeta?
Tutto è iniziato quando avevo 9 anni, quando mio nonno mi portava fuori dalla città nelle neve a Verbier. Lì è nata la passione freeride!
Ero felice di poter sciare ogni inverno in un paradiso ed è a Verbier nel 1985-1986 che ho conosciuto due ragazzi snowboarder che si stavano costruendo la loro tavola. Così ne ho acquistata una e sono entrato in un vortice di persone e cose. Tutto era molto semplice, basico.
Abbiamo iniziato a viaggiare insieme per coltivare la nostra passione e si è creato un team che pian piano ci ha portato verso la creazione di un campionato amatoriale.
La prima sponsorizzazione in tal senso è arrivata da Victorinox. Da subito abbiamo avuto una buona risonanza nei media, perché la gente sembrava interessata a quei pazzi ragazzi “surfer” che cavalcavano le onde del manto nevoso.
Così abbiamo proposto a Victorinox di sostenerci per creare un parallelo tra snowboard e surf utilizzando video e fotografie. Nel 1994 ottenemmo il budget per realizzare un film di 16 minuti tra il paradiso bianco di Verbier e le onde dell’Oceano Indiano: The bladeriders of Maconde.
Durante la selezione e poi rivedendo le riprese effettuate siamo rimasti folgorati da qualcosa di unico, di nuovo: questi ragazzi che sul ripido volavano velocissimi sullo snowboard erano un vero spettacolo da guardare! In quegli anni gli sci erano ancora sottili, per cui non si prestavano a grandi velocità fuori pista. Insomma, non si era mai visto nulla di simile.
Da quelle riprese è nata l’idea di portare i migliori snowboarder sulla Bec des Rosses per una gara, con l’idea di realizzare uno show senza precedenti che avesse una grande audience.
Non avevamo esperienza di organizzazione di eventi, eravamo solo un piccolo comitato di appassionati. Lavorammo duro, il film ebbe successo e attirò qualche altro sponsor… fu così che arrivammo al vero punto d’inizio: la prima edizione nel 1996 dell’Xtreme di Verbier.
Per molti anni è stato l’unico evento perché non avevamo sponsorizzazioni sufficienti ad allargare il circuito.
Come si è passati da Verbier al Freeride World Tour?
Per l’Xtreme, diventato molto ambito, avevamo il problema della selezione degli atleti. La partecipazione all’inizio era solo su invito, in pratica dovevi essere un amico o avere comunque qualche speciale connessione con noi per accedere alla gara. È chiaro che tale sistema poteva funzionare solo in una fase iniziale. Per questo motivo, iniziammo a organizzare alcune gare di qualificazione, altri appuntamenti, in Austria, a Chambery, ecc…
Funzionò bene, il circuito iniziò a crescere e in pochi anni ci ritrovammo pronti – noi e lo stesso mercato che smuove gli sponsor – per un Freeride World Tour con tanti eventi al top. Fu così che arrivammo alla prima edizione nel 2008.
Ora siamo alla quinta replica e non ci sono solo le 6 gare regine, ma anche più di 30 altri eventi: un giro di competizioni che coinvolge un migliaio di atleti in tutto, tra uomini e donne. E il lavoro è lontano dall’essere finito.
La sfida ora è quella di organizzare ulteriori eventi di qualificazione, perché molte persone non riescono a entrare nel circuito a causa del numero limitato di partecipanti che ogni evento può sopportare. Molte gare che possono accogliere un centinaio di iscritti ricevono richieste per un numero 4 o 5 volte superiore.
Per cui stiamo progettando per gli anni a venire delle settimane di qualificazione in molte nazioni, in modo che ogni atleta che lo desideri abbia la possibilità di gareggiare almeno due o tre volte e quindi di qualificarsi per il FWT.
La macchina sta diventando grande: è ormai il mio lavoro full time. Abbiamo una sede a Losanna dove lavorano tutto l’anno 6 persone a tempo pieno e 6 a metà tempo, oltre a 5 stagisti. Negli Stati Uniti si è formata ora una seconda equipe di 8 persone. Durante la stagione poi sono tra 80 e 150 persone coinvolte nel comitato organizzatore.
Torniamo alle origini, alle radici. Quando è iniziato tutto, avevate qualche modello?
Il solo punto di riferimento fu qualche foto su una rivista di snowboard accompagnata dal racconto di un’edizione del King of the Hill : la storia di un gruppo di amici che si giudicavano a vicenda nelle rispettive discese sulle ripide pareti dell’Alaska.
Scoprimmo solo successivamente che era nato come World Extreme Snowboarding Championship nel 1992, ma in Europa non se ne era saputo praticamente nulla.
L’anno prima era si era anche disputato il primo World Extreme Ski Championship (WESC), vinto dal mitico Doug Coombs, che aveva avuto appena un po’ più di risonanza.
Come è nata la community europea?
Arrivammo al primo evento di Verbier senza una vera consapevolezza, giusto guidati dallo stupore, dal “wow” che scattava nelle nostre menti guardando ciò che questi ragazzi e noi stessi riuscivamo a esprimere sulla neve.
L’aspetto sociale fu una conseguenza logica dello stare insieme, non avevamo nessun modello, né idea “organizzata”. Fu naturale che, in un gruppo di appassionati che si ritrovano per una settimana a condividere la loro passione, le persone iniziassero a comunicare, a discutere delle linee che avrebbero tracciato su una parete, delle loro sensazioni, a trasferire un certo savoir-faire ai nuovi arrivati, a godere della compagnia reciproca, magari bagnata da qualche buona birra.
Fu una fortuna che tutto avvenisse a Verbier, dove esiste un background culturale antico sullo sci e le discipline legate alla montagna, dove le persone fin da piccole hanno a che fare con questo ambiente e le sue sfide. Fu tutto davvero molto naturale.
Anche oggi, pur essendo tutto molto più professionale – dal punto di vista degli atleti e dell’organizzazione – in definitiva lo spirito non è cambiato.
Mi viene in mente l’esempio di Reine Barkered e Aurelien Ducroz, che pur gareggiando ai massimi livelli e disputandosi il titolo, sono amici al punto di vedersi qualche giorno prima delle gare per stare insieme, rispettivamente ospiti a casa di uno o dell’altro.
Questo spirito di condivisione è davvero speciale, ed è favorito dal fatto che questi ragazzi sono persone eccezionali, sono al tempo stesso coach di se stessi, pr manager, ecc…
Essere freerider significa essere versatile, muoverti, adattarti: sei obbligato a viaggiare per crescere e quindi devi saperti relazionare con le persone e i luoghi che visiti.
Il FWT non è solo una gara o un circuito di gare, è un lifestyle!
Puoi riassumere in poche parole i valori del FWT?
Direi, impegno totale. In questo tipo di sport devi essere completamente focalizzato su ciò che stai facendo, dalla preparazione, ai molteplici aspetti tecnici e a quelli legati alla sicurezza. Sei outdoor in un ambiente che presenta alcuni rischi e non puoi permetterti in quello che fai.
In secondo luogo, il controllo di tutti gli aspetti e i fattori in gioco.
E poi l’aspetto del divertimento, che viene da molte cose: dal condividere con gli altri la tua grande passione che si concretizza in un’esperienza forte durante il giorno e in una buona birra nella serata che segue.
La libertà, puoi scegliere la tua linea, il tuo stile, il tuo modo, ognuno può scegliere anche il suo livello. È molto differente per esempio dal freestyle. C’è una connessione molto maggiore con uno sciatore medio, normale, che può immedesimarsi, avere il feeling della powder anche solo uscendo a lato della pista per un piccolo tratto.
Quindi si rivolge a un’audience più vasta.
Anche il fattore età non è così importante, puoi essere un ottimo freerider a 55 anni e condividere una fantastica giornata, la stessa montagna e le stesse emozioni, con un ragazzo di 16 anni. Una condivisione che abbraccia anche chi semplicemente guarda da spettatore, perché vive una parte di emozioni in comune con chi scia.
Cosa cambia quest’anno, perché il 2013 è speciale?
Siamo felici di avere un unico grande Tour! Lo scenario precedente era penalizzante per gli atleti, costretti a scegliere e dividersi tra un circuito e l’altro.
Ora le cose sono cambiate grazie alla fusione nel 2013 del FWT con le due grandi manifestazioni oltre oceano: il North-American Freeskiing World Tour e i The North Face Masters of Snowboarding.
Risultato finale: sei eventi totali al top, due in Nord America e quattro in Europa.
Ma in realtà questa unione significa molto di più: il sostegno di un altro grande sponsor come The North Face, la possibilità di avere un impatto mediatico molto più forte, l’opportunità di consolidare e migliorare il nostro sport.
Coinvolgere tutti gli atleti in un solo movimento, che di fatto già esiste grazie al loro spirito di community, è davvero molto importante per creare coesione, condividere regole, modalità, sviluppi. Nel nostro caso il legame tra atleti, regole, giudici e organizzatori è molto forte, una connessione vera e profonda di cui andiamo fieri e che ci contraddistingue.
Ci sono sport olimpici in cui chi fa le regole e prende le decisioni è completamente disconnesso da chi pratica quella disciplina. È un grande rischio questo scollamento. Per noi è differente.
A proposito di sviluppi stilistici, cosa pensi delle acrobazie freestyle sempre più presenti nelle run?
Un grande cambiamento in tal senso è avvenuto nel 2010 quando Candide Thovex si presentò per la prima volta al FWT e lo vinse, anche grazie ad alcune run che includevano chiari aspetti di freestyle.
Se guardiamo al trend, tornando al 1996, sci e snowboard estremi erano più lenti e più estremi.
Oggi i fattori chiave per vincere il FWT credo siano la velocità e la fluidità, insieme a un nuovo elemento: le acrobazie.
I ragazzi usano la montagna come un playground: linee meno estreme, ma maggiori possibilità di espressione, di tentare acrobazie, di provare, creare, combinare. Penso sia un elemento positivo in più, che non ci porta in sovrapposizione al freestyle, ma che arricchisce il nostro sport.
Quindi come si sceglie oggi la run vincente?
La ricerca, oltre all’originalità della linea, è sempre di equilibrio tra fluidità, controllo e acrobazia. Se perdi un po’ di fluidità, ma riesci a realizzare con piena capacità di controllo una spettacolare acrobazia freestyle di sicuro i giudici non ti penalizzeranno molto.
Prendiamo un elemento che è sempre stato presente, il salto. Storicamente i grandi salti erano dritti. Oggi sono ricchi di rotazioni in tutte le direzioni, questo significa rendere il salto più tecnico e più spettacolare sotto il profilo visivo.
Qualcuno dice “state diventando freestyler”. Io non sono d’accordo si tratta sempre di sciare, e la sfida è semplicemente quella di essere lo sciatore migliore, sotto tutti gli aspetti.
Come è nata l’idea di mettere insieme snowboard e sci?
Negli Stati Uniti i due circuiti sono stati separati fino all’anno scorso.
In Europa il nostro circuito è partito con il solo snowboard. Poi l’industria dello sci è stata influenzata da quella dello snowboard, hanno iniziato a comparire sci più larghi e capaci di galleggiare nella powder. È stato naturale quindi, a partire dal 2003, includere lo sci nell’Xtreme di Verbier. Avevamo già fatto alcune prove fin dai primi anni, ma gli sci stretti erano davvero troppo lenti in fresca.
Qualcuno ha anche cercato di separare i due mondi, mettendoli in competizione e in antagonismo, sostenendo che chi scia e chi scende con la tavola ha visioni differenti della vita e della montagna. Ma è falso. I valori sono gli stessi. Gli occhi con cui i ragazzi guardano una parete e scelgono le loro linee sono gli stessi. Per cui l’unione è stata un fatto del tutto naturale.
Parliamo dei rischi, a molte persone a prima vista sembrano alti. Cosa diresti loro?
Che è una percezione completamente sbagliata. Vorrei rispondere con tre punti essenziali.
Primo. Il fatto che Verbier abbia accettato nel 1994 di supportare questo evento, nonostante le incognite e i rischi di un progetto senza precedenti, la dice lunga. Quando ci trovammo tutti intorno a un tavolo per discuterne, il responsabile della sicurezza, che faceva capo alla regione Valais, disse: «Vedo in questo evento l’opportunità per diffondere la miglior educazione possibile per tutti gli sciatori delle generazioni future».
E penso che avesse ragione. Perché i riders mostrano ottimi esempi di come si utilizzano le attrezzature per la sicurezza: caschi, protezioni per la schiena, zaini ABS, arva,…
Perché trasmettono, insieme a noi organizzatori, un messaggio chiaro: bisogna sempre avere una reale consapevolezza di ciò che si fa e un grande rispetto per l’ambiente in cui ci si muove.
Nel nostro sport, ma la validità è ben più ampia, bisogna progredire step by step, facendo crescere consapevolezza e capacità. Tutto è importante: tecnica, allenamento, ricerca e preparazione delle linee, esperienza e cultura della montagna, attenta considerazione delle condizioni,…
Gare come le nostre hanno un grande potenziale educativo, perché sono un forte strumento di comunicazione per questi messaggi.
Secondo. Basta guardare al numero di incidenti e alla longevità degli atleti. Uno come Aurelien Ducroz gareggia da 12 anni, non ha mai avuto un infortunio e ha vinto due volte il FWT.
Se questi ragazzi fossero pazzi le loro carriere sarebbero brevi e noi come organizzatori avremmo sbagliato tutto.
Basta parlare con loro per scoprire che sono preparati, consapevoli, che non hanno intenzione di correre rischi stupidi o inutili, che sanno adattare le loro scelte alle condizioni della neve, della parete, del meteo, ecc…
Qualcuno di loro è anche genitore, ed è felice di trasmettere ai propri figli la sua passione: sicuramente non metterebbe a repentaglio la sua famiglia in modo sconsiderato.
Terzo. Molto nella vita dipende dall’approccio. Siamo troppo abituati a dire che tutto deve essere sicuro, così possiamo dimenticarci di pensare, capire e adattare le nostre azioni di conseguenza. Penso che il freeride sia qualcosa di molto educativo per la vita in generale.
Per l’educazione dei più giovani c’è qualche iniziativa specifica?
Abbiamo da due anni il circuito Junior. Sta avendo un grande successo, perché non è semplicemente una gara. Sono due giorni di programma: uno di gara e uno di formazione insieme a rider professionisti sul tracciamento delle linee, sulla sicurezza e sull’attrezzatura per garantirla.
Per noi questo è un investimento essenziale e questo circuito per i giovanissimi crescerà e sarà la migliore garanzia per il futuro del nostro sport.
Per ultimi, ma bisognerebbe metterli per primi, gli atleti. Quali sono quelli che hanno influenzato di più il freeride in questi anni? E quali giovani vedi tracciarne il futuro?
La lista sarebbe lunga, ma per fare solo qualche nome… all’inizio, parlo del 1996, sicuramente Steve Klassen, dagli Stati Uniti, che ha vinto l’Xtreme cinque volte ed era davvero un leader: ha dato tanto per sviluppo di questo sport. Poteva studiare una linea dedicandoci ore per molti giorni e aveva una preparazione impeccabile.
Poi un personaggio chiave che ha avuto una grande influenza con la sua esperienza e visione alpinistica, il francese Jérôme Ruby (oggi responsabile della sicurezza in alcune tappe chiave europee del FWT, NdR) guida alpina di Chamonix.
Poi sicuramente Candide Thovex, uno dei nomi al top per lo sci, così come Seb Michaud.
Per lo snowboard Xavier De Le Rue, vincitore di ben tre edizioni consecutive, diventato riferimento indiscusso con la sua versatilità e il suo stile di riding per tutti gli amanti della tavola e non solo.
Ancora nello sci, un nome che vorrei segnalare è quello di Henrik Windstedt, che ha vinto nel 2008 venendo dal freestyle e adattandosi rapidamente al freeride big mountains.
Parlando di futuro e in chiusura per questa intervista su ALP voglio sbilanciarmi con un italiano in testa alla lista Markus Eder, che quest’anno ha vinto la tappa italiana di Courmayeur con una bellissima run. Punto su di lui – e qualche altro giovane talento – per il domani del nostro sport.
ITW Nicolas Hale Woods (pdf - 3.0 MiB)