(intervista pubblicata su ALP Speciale Futuro – aprile 2012)
Simone Moro e Denis Urubko sono tornati dalla spedizione invernale al Nanga Parbat – dove sono stati costretti a rinunciare per le condizioni meteo proibitive – con un sacco di sorprese e cose interessanti da rivelare. Scoprite in questa intervista quali sono stati i momenti più belli e quelli più difficili, quali insegnamenti hanno tratto dal Nanga Parbat, il significato della rinuncia e della velocità, il ruolo della comunicazione per un alpinista e poi il loro messaggio: «l’esplorazione ha un senso profondo, è un fatto cruciale, un valore universale».
È stato soprattutto Simone a parlare ma nella sua voce non c’è nulla di individualista. L’intesa della coppia è davvero formidabile, per cui possiamo dire con tranquillità che le risposte arrivino dalla cordata che è l’essenza dell’alpinismo himalayano di oggi e dei prossimi anni.
Quale messaggio riportate dal Nanga Parbat?
S / Il Nanga si è rivelato come me l’aspettavo, dannatamente grande e complicato. Partire per una salita da 5300 m, quota di quasi tutti i campi base in Himalaya, oppure da 4100 m, come sul Nanga, fa una bella differenza, soprattutto d’inverno dove le finestre di tempo buono sono piccole e rare.
Torniamo però con la consapevolezza che si può fare: bisogna solo essere un po’ più fortunati con il meteo. Sono particolarmente contento della ricerca che ci ha permesso di individuare una nuova via rispetto al nostro progetto iniziale (salire la “normale” Kingshofer, NdR). Questa nuova linea, già calcata da Messner, è davvero strepitosa e anche più logica e sicura. Ovviamente fintanto che le condizioni rimangono buone, perché è il classico pendio in cui se nevica tanto viene giù tutto. Inoltre l’avvicinamento alla salita comporta un’interessante esplorazione su ghiacciaio: pensate che questo tratto nella storia è stato attraversato solo due volte da Mummery nel 1895 e da Messner e Hanspeter Eisendle nel 2000.
Ne è valsa la pena e ritorneremo al Nanga Parbat il prossimo anno, molto probabilmente ricomponendo il team del GII, con Cory (Richards, NdR).
Il momento più bello e il più difficile?
S / Più bello sicuramente il tramonto che abbiamo vissuto nel punto più alto raggiunto a 6800 m. Peggiore il passaggio sotto il seracco della via Kingshofer, attaccati solo alla gonna della fortuna: bruttissimo. Parlando con Reihnold abbiamo poi scoperto che lui non è mai passato di lì: ha fatto un canale che anche noi pensavamo migliore, ma temevamo comportasse una discesa troppo lunga. Torniamo quindi anche con la consapevolezza che non dovremo più passare sotto il seracco della Kingshofer.
Ma tornate anche con altre sorprese…
S / Già, con un libro e con il progetto di un ospedale che sta decollando nella valle Diamir. Sono felicissimo di quest’ultima idea, approvata anche da Reihnold Messner, che come sapete si era adoperato per aprire una scuola in questa valle in ricordo di suo fratello Günther. Un ospedale aggiunge un tassello importante in un’area in cui le condizioni igieniche sono precarie e manca completamente l’assistenza sanitaria.
Il libro, invece, è stato la mia vera vetta. Averlo scritto al Nanga è allo stesso tempo colpa e merito mio. È da un po’ che pensavo a un testo sulle esperienze in invernale e allora mi sono messo ai ferri corti, vincolandomi con un contratto con l’editore Rizzoli. Avrei dovuto finirlo prima di partire, ma il 26 dicembre, data del decollo dall’Italia, avevo scritto appena 30 pagine. Allora ho chiesto una proroga di 15 giorni per “rileggerlo e metterlo a punto”… in realtà è in quei 15 giorni che l’ho scritto.
Come si scrive in spedizione?
S / Ci sono vantaggi e svantaggi. Il freddo non aiuta né l’autore, né il computer che non è fatto per funzionare a -30°. Per questo ho usato il trucco della nonna: la boule dell’acqua calda. La tenevo sotto la tastiera mentre scrivevo, poi, quando per il freddo iniziavo a non sentire più i piedi ecco che la lasciavo cadere per avere sollievo da quelle parti.
D’altra parte stavo scrivendo di invernali per cui essendo in spedizione è stato un po’ come raccontare le sensazioni in diretta. Tutto è vivo e presente intorno a te. E poi c’è stato Denis che mi ha aiutato tantissimo su molti dettagli. Adesso sono curioso di leggerlo anch’io il libro! Non ricordo molto, ho scritto velocissimo e, tra fornelli e kerosene per stare un po’ più al calduccio, ho respirato un sacco di porcherie che non aiutano i neuroni.
D / Tutte le sere fino a notte tarda Simone era impegnato sul libro a testa bassa. Al mattino quando mi alzavo era già lì che scaldava il computer sul fornello. Inarrestabile!
Una chiave di questa e di molte imprese raccontate nel libro sembra essere la rinuncia. È così?
S / Fin da quando dissi ai miei genitori che volevo fare l’alpinista, loro mi risposero: benissimo, ma preparati anche a perdere la scommessa. Grazie a questo atteggiamento ho continuato a studiare, mi sono laureato e parlo 5 lingue. Il consiglio mi è ancora oggi utilissimo, come le conseguenze che ha comportato.
È così strano che tuttora non si sia capito: i migliori del passato, e mi riferisco anche a Messner che ha impiegato 16 anni per fare tutti gli Ottomila, sono quelli che hanno raccontato un sacco di rinunce. Se il migliore è diventato grande rinunciando tante volte, significa che la rinuncia è davvero il segreto per poi riuscire. Basta non mollare.
Una scelta difficile per chi ha grandi ambizioni…
S / Certo. Però se la vera vetta è la felicità – personalmente è questa la motivazione che mi porta in spedizione – rischiare di tornare congelato oppure di non tornare proprio… di sicuro non è ciò che desidero. Morire per un sogno è una somarata! Rinunciare non è da sfigati, è da virtuosi. Il successo è solo posticipato.
Inoltre, se da un lato l’ambizione è cruciale per andare oltre, dall’altro non deve mai diventare cieca e sorda, altrimenti perdi di vista il pericolo, perdi il contatto con la paura: uno degli strumenti più importanti per l’alpinista, perché lo mantiene vigile e attento.
Quando abbiamo visto il pericolo all’Annapurna con Anatoli (Boukreev grande alpinista che morì proprio in quell’occasione di tentativo dell’Annapurna in invernale nel 1997, NdR) era troppo tardi. Bisogna fiutarlo prima.
Al Broad Peak ho rinunciato a 197 m dalla cima, stavo bene e c’era il sole, ma quando ho guardato l’orologio mi sono reso conto che non ce l’avremmo fatta: erano le 14.26 e alle 16 veniva buio. A quelle quote si sale piano, gruppi di pochi passi per volta, mancava ancora un’ora e mezza per la vetta. E il mio compagno Shaheen era sempre più affaticato e indietro.
Allora ho girato i tacchi.
La velocità che significato assume in quota?
S / Ci sono attitudini fisiche e mentali. Per essere veloce devi avere un motore pronto ed elastico. Ma in quota tutto assume un significato diverso. Sia io che Denis abbiamo fatto qualche ascesa “speed”, ma non è certo ciò che cerchiamo di fare nelle nostre invernali.
Lì devi essere veloce soprattutto a prendere le decisioni e hai bisogno di avere grande esperienza e lasciare spazio all’istinto per farlo nel modo giusto.
Il buon senso è il tuo contachilometri personale e ciascuno deve utilizzarlo e starlo a sentire.
Non c’è da scherzare. Se guardi ciò che è successo al GI quest’anno, i polacchi (Adam Bielecki e Janusz Golab, NdR) sono arrivati in cima, ma non senza congelamenti, e gli altri (Gerfried Göschl, Nisar Hussain e Cedric Hahlen, NdR), purtroppo, ci hanno lasciato la pelle.
Tra l’altro il buon senso si sposa con la filosofia degli sponsor che giustamente non vogliono lanciare un messaggio di morte, ma uno di gioia.
Quanto è importante comunicare?
S / La visibilità è sicuramente un grande valore se ciò che comunichi è onesto e non fine a se stesso. La condivisione delle nostre esperienze, delle nostre emozioni è la chiave di tutto. È un po’ come in vetta, se non c’è nessuno da abbracciare, per me la conquista perde molto.
Va poi detto che scrivere libri, fare video, o documentare in qualche modo la realtà che stiamo vivendo non rende certo le cose più semplici o banali, anzi.
Qual è il vostro messaggio al mondo?
S / Siamo uomini che credono fino in fondo nei loro sogni. E il nostro è di spostare i limiti ed esplorare qualcosa anche al giorno d’oggi.
Sembra non ce ne sia più necessità, almeno non come un tempo. Oggi puoi sederti in poltrona e visitare ogni recesso del Pianeta con Google, ma è un’esplorazione che non ha un senso più profondo: è senza sforzo, senza esperienza diretta.
Anche nel terzo millennio invece l’esplorazione è un fatto cruciale. Noi saliamo solo sulle montagne, che può anche sembrare qualcosa di futile o stupido, ma è l’attitudine a essere importante. Se fossi un medico, spostare il limite significherebbe trovare la medicina per il cancro, e potrei riuscirci solo con grande volontà di farlo.
Se non c’è questa spinta, questo slancio dell’uomo, tutto si appiattisce. Posso fare il dottore che passa le giornate in ospedale e cura tutti con l’aspirina. E se hai il cancro? Rispondo “spiacente devi morire”.
L’esplorazione è un valore davvero universale. Nell’alpinismo è qualcosa di ovvio, di molto visibile. Pensando ai giovani, come i miei figli vorrei dire loro: seguite i vostri sogni.
Se desiderate diventare cantanti, o magari lo scrittore più bravo del mondo… fatelo, provateci, ma ricordate “big dreams, big effort!” (grandi sogni = grande sforzo, NdR).
Le invernali vanno intese in tal senso. Qualcosa che pare impossibile, ma diventa possibile grazie all’impegno, all’intesa, all’amicizia. È esattamente come in un’azienda, in una famiglia, come dovrebbe avvenire in una nazione. Come l’Italia di adesso: se vogliamo uscire da questa situazione dobbiamo unire le forze e spostare più in là i nostri limiti. Questo è il nostro messaggio.
D / È molto importante capire che l’esplorazione ha un aspetto esterno, forse più chiaro e visibile, ma ha anche un aspetto interno, molto rilevante. È qualcosa che è dentro di me, dentro tutti noi. Fin da piccolo ho esplorato montagne e grandiosi scenari naturali. Diventando un climber ho iniziato a esplorare i miei limiti sportivi, le mie capacità, la mia forza, la mia resistenza. Oggi, con le spedizioni vedo l’esplorazione come un’arte: mi sento come un pittore che realizza dei dipinti perché li sente dentro e li vuole condividere con gli altri.
Frasi da ricordare di Simone Moro
«Morire per un sogno è una somarata! Rinunciare non è da sfigati, è da virtuosi. Se non ti arrendi, il successo è solo posticipato»
«La visibilità è sicuramente un grande valore, se ciò che comunichi è onesto e non fine a se stesso»
«Siamo uomini che credono fino in fondo nei loro sogni. E il nostro è di spostare i limiti dell’alpinismo ed esplorare qualcosa anche al giorno d’oggi»
«Qualcosa che pare impossibile, diventa possibile grazie all’impegno, all’intesa, all’amicizia. È esattamente come dovrebbe avvenire oggi in l’Italia: se vogliamo uscire da questa situazione di crisi dobbiamo unire le forze e spostare più in là i nostri limiti»
Nel corso della spedizione al Nanga Parbat, Simone Moro ha anche trovato l’energia e la passione per scrivere il suo ultimo libro:
Simone Moro, La Voce del ghiaccio, Rizzoli, 288pp, 18,00 €
ALP280 Caresio MoroUrubko (pdf - 1.8 MiB)